Nato a Canicattì (Agrigento), il 3 ottobre 1952, morto a Agrigento, il 21 settembre 1990.

Figlio unico di Vincenzo e Rosalia Corvo, durante il liceo studia intensamente e si impegna nella Azione Cattolica. Si rivela subito eccezionale per intelligenza e applicazione negli studi. Seguendo le orme del padre, a ventitré anni si laurea in giurisprudenza e in seguito anche in scienze politiche.

Nel 1979 entra in magistratura, il sogno della sua vita. Come sostituto Procuratore al tribunale di Agrigento, si occupa oltre che di criminalità comune, anche delle più delicate indagini antimafia, mettendo le mani sulla “tangentopoli siciliana” e inevitabilmente approdando alla mafia agrigentina.

Presta poi sevizio presso il Tribunale di Agrigento quale giudice a latere della speciale sezione “misure di prevenzione” e molto probabilmente è proprio questo delicato incarico a decretare la sua fine.

Livatino avverte in modo molto forte il problema della giustizia e lo assume ben presto come una vera missione. E’ abile, intelligente, professionale: comincia a diventare un punto di riferimento per i colleghi della Procura.

Inflessibile, coerente, assolutamente non influenzabile, non rilascia dichiarazioni e raramente interviene in pubblico. E’ tutto concentrato sul suo lavoro e se lo porta anche a casa, per studiare a fondo le cause. Scrive, attingendo dal Vangelo, che verrà trovato sulla sua scrivania, evidenziato e con annotazioni a margine:
“La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità”.
“Il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico.”

La sua giornata inizia sempre con un momento di preghiera in una chiesetta fuori mano, in cui può pregare in incognito e dove può passare inosservato. La sua non è una fede esibita, ma concreta. Scrive:
“Il giudice deve offrire di se stesso l’immagine di una persona seria, equilibrata, responsabile. L’immagine di un uomo capace di condannare, ma anche di capire,….dare alla legge un’anima”.

Ed è esattamente quello che cerca di fare, nel continuo sforzo di essere giusto nel condannare, ma attento a non confondere la persona con il reato, scegliendo sempre secondo giustizia, anche se, come scrive:
“Scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare…ma è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio: un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio”.

“Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso, ma con uguale impegno spirituale. Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà e autonomia”.

Il suo sincero senso del dovere messo al servizio della giustizia ne fa una specie di missionario. Il “missionario” del diritto.

Per la profonda conoscenza che ha del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vengono affidate inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firma sentenze su sentenze: è entrato ormai nel mirino di Cosa Nostra.

Domanda che gli venga affidata una difficile inchiesta di mafia perché è l’unico tra i sostituti procuratori di Agrigento a non avere famiglia: con fiducia totale si mette nelle mani di Dio (“Sub Tutela Dei” annota nella sua agenda).

Ma Rosario Livatino non era un eroe: faceva semplicemente il suo dovere. E lo faceva coniugando le ragioni della giustizia con quelle di un’incrollabile e profondissima fede cristiana.

Scelse, nonostante gli inviti a “lasciar perdere”, di far parte del collegio chiamato a decidere sulla confisca dei beni a quattro presunti mafiosi agrigentini, potenti ed “intoccabili” capifamiglia di Canicattì.

Il 21 settembre 1990, sulla superstrada che, sempre senza scorte, percorre abitualmente per andare in ufficio, gli viene teso un agguato. Lo rincorrono lungo la scarpata lungo la quale si dà alla fuga, uccidendolo con sei colpi mortali e quello finale di lupara, come a lasciare una firma con la loro arma preferita.

Grazie ad una testimonianza oculare, in pochissimo tempo, mandanti ed esecutori vengono identificati, arrestati e condannati all’ergastolo.

Quella del giudice Livatino è stata senza dubbio una morte di mafia, ma non casuale, bensì logica conseguenza del suo impegno per la legalità.

La lezione morale che ci trasmette è quella di un testimone radicale della giustizia, in cui credeva profondamente, come progetto di fede e come esercizio di carità.

Rosario Livatino è stato un magistrato di alto valore morale, per il quale attingeva sia alla fede che ai fondamenti della legge dello Stato. La storia del giudice di Canicattì è la testimonianza che è possibile svolgere la propria professione, non solo quella del giudice, con rettitudine, indipendenza, senso del dovere e integrità, in una società che in gran parte disconosce questi principi.

Una sua frase particolarmente significativa è:
Quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stati credibili”.