ULTIMA DOPO L’EPIFANIA detta "del perdono" - Lc 15, 11-32


È sempre intrigante ascoltare i racconti di Gesù. Anche questa parabola che conosciamo fin da bambini e che abbiamo ascoltato decine di volte, mantiene il suo fascino perché non esaurisce mai il suo messaggio, ovviamente se non la riduciamo a una storiella di morale, piuttosto se ogni volta ci poniamo la domanda, anzi le domande: Gesù cosa volevi dire? E poi: Cosa vuoi dire a noi oggi?

Gesù parla delle due relazioni costitutive della nostra vita: l’essere figli e l’essere fratelli; la relazione dei figli col Padre/Madre e la relazione tra fratelli. Sono le due relazioni che si intrecciano nel racconto e sono le due relazioni che costituiscono anche la nostra vita: siamo figli, tutti siamo figli e poi siamo anche fratelli, magari non tutti hanno fratelli di sangue, ma fratelli in umanità lo siamo tutti.

Sono le relazioni che ci riempiono di gioia, danno gusto alla vita, ci costruiscono come persone, ma Dio sa quanto sia anche difficile viverle bene, serenamente. Anzi credo proprio che non ci sia una relazione filiale e nemmeno una relazione fraterna che non abbia attraversato tensioni, problemi, conflitti nei quali sperimentiamo la nostra impotenza, la nostra incapacità a rianimare relazioni che da figli o da fratelli viviamo come fallite, guastate, rovinate.

Certamente se guardiamo le nostre capacità e i nostri caratteri siamo destinati a rassegnarci a non poterle cambiare, ma l’operazione che Gesù ci invita a fare è ad alzare lo sguardo così chiuso sulle nostre dinamiche nervose e arrabbiate, per vedere cosa fa Dio con noi.

Che Dio è quello raccontato da Gesù? Uno che a un figlio che ritorna dopo averne combinate di ogni, come il minore della parabola, non solo non rimprovera nulla, non gli chiede conto, ma addirittura quando lo vede arrivare da lontano si commuove, gli si getta a collo e lo bacia! A momenti si mette a piangere.

Che Dio è? Possiamo rassomigliarlo a un padre, ma che ha anche tutte le caratteristiche di una madre… come sta a indicare il verbo della commozione che conosciamo bene: è il verbo deponente in greco (splanghizomai) di forma passiva ma di significato attivo che racconta il movimento della pancia, il dolore del corpo al vedere com’è conciato quel figlio, un dolore che precede qualsiasi parola, qualsiasi gesto.

Ed è un verbo materno per dire Dio, perché Dio è uno che rigenera in continuazione. Eri conciato da buttare via, eri rovinato come pochi e lui cosa fa? Ti organizza una festa. Ti abbraccia. Ti stringe al collo e ti bacia. Un Dio che bacia, come un innamorato!

Che Dio è quello che si innamora? Che si presta a questa esperienza tanto inebriante, quanto dolorosa?!

Ce lo racconta il profeta Osea che parlando della sua storia personale, si rende conto di capire qualcosa su Dio. Infatti anche Osea aveva perso la testa per una donna che faceva la prostituta sacra nel tempio di Baal e l’aveva pure sposata. Quando questa aveva sentito il richiamo dell’antico mestiere nonostante avesse tre figli[1] allora cosa poteva fare il profeta? Quello che farebbe ogni uomo deluso e ferito: incita i figli a intentare una sorta di processo contro la madre per ottenerne il ritorno.

Infatti la donna ritorna e lui non la punisce, non la castiga, non discute condizioni… ma riascoltiamo la bellezza rigenerante che c’è nelle sue parole: La sedurrò (quindi rinforza l’amore ferito, non ama di meno, ma di più); la condurrò nel deserto (costruisce le condizioni per un’intimità che non abbia distrazioni) e parlerò al suo cuore, letteralmente: parlerò sul suo cuore (riapre una relazione con la parola detta sul cuore, ovvero sulla radice non semplicemente romantica, ma sulla radice dei pensieri e dei sentimenti).

Tant’è che Osea chiude con questa promessa: Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza.

Ti farò mia sposa per sempre: questo verbo nella bibbia ebraica è destinato solo a una ragazza vergine, che se ora viene rivolto a una prostituta, significa che Dio restituisce a Israele una verginità ormai perduta, nel senso che di fatto lo rende una nuova creatura, lo rigenera.

Di conseguenza la dote delle nuove nozze non sarà più fatta di cose, di oro, di denaro, cammelli, terreni o case… ma di giustizia, diritto, amore, benevolenza, fedeltà… e tu conoscerai il Signore (v.22). Valori spirituali e umanissimi che ti permettono finalmente di poter dire di conoscere Dio, perché hai conosciuto la fedeltà del suo amore per te.

Noi siamo figli di questo amore. Gesù non sa più come farci capire che Dio è innamorato perso per noi, che questa è una relazione tale per cui anche se tu figlio vai a puttane, anche se tu figlia ne combini di tutti i colori, nessuno mai hai il potere di ferirlo. Non lo scalfisci nel suo amore, ti aspetta sempre, attende il momento in cui ti stuferai di fare pure stupidaggini, ti stuferai di sprecare la tua vita. Arriverà il momento in cui sarai nauseato dalla tua ricerca spasmodica di soddisfare i tuoi capricci di denaro, di droga, di sesso, di potere… sappi che lui ti aspetta, attende di abbracciarti, di stringerti al collo, di baciarti perché tu possa rifiorire, rinascere, rigenerarti.

Questa esperienza è decisiva anche per vivere diversamente la seconda relazione, quella dei figli tra loro. Perché se Dio Padre ama così i suoi figli, come li amerebbe una madre, di conseguenza anche i fratelli dovrebbero attingere lì la forza per il loro amore tra di loro.

In realtà non è così automatico, infatti il finale della parabola raccontata da Gesù rimane aperto: non sappiamo se il fratello maggiore abbia accettato o meno di entrare a far festa col fratello!

Ora il fratello non dovrebbe dimenticare l’amore del Padre per lui, se lo dimentica significa che è nell’errore di credere di meritarsi il meglio da Dio perché lui sì che è bravo se non perfetto!

Gesù ci spinge a pensare che i sentimenti di fratellanza non dipendono dalla nostra buona volontà, dal nostro impegno, dalla nostra bontà, ma dal fatto di custodire nel cuore l’abbraccio con cui Dio abbraccia ciascuno di noi dopo le nostre devianze, le nostre fughe, i nostri peccati.

Come il perdono di Dio rigenera le nostre vite personali nei suoi confronti, così il perdono reciproco può rigenerare relazioni guastate e ferite dalle tante cattiverie e ingiustizie di cui siamo capaci.

È quanto chiediamo nella preghiera che ci ha insegnato Gesù: perdona i nostri debiti, perché impariamo a perdonare i debiti che abbiamo gli uni con gli altri.

Poi dobbiamo fare i conti con chi come Radio Maria ci viene a dire che il Corona virus viene dalla Cina perché è atea, che l’epidemia ci inonda perché siamo peccatori e Dio allora ci castiga… che è un bel modo per annunciare una religione della paura, dell’angoscia, non certamente il messaggio evangelico.

Ora abbiamo attraversato la pandemia dell’Aids, c’è stata poi tutta una sequela di mucche pazze, pesti suine, tsunami, attentati terroristici e Sars a guastare i nostri giorni di figli prediletti della storia umana e c’è sempre stato chi vi ha visto la punizione di un Dio castigamatti che, guarda caso, ricade sempre sugli altri.

Atteggiamento irrazionale e irragionevole di cui non c’è proprio bisogno, anzi tenere a mente l’amore di Dio aiuta ad avere chiara la nostra vulnerabilità personale e ad avere atteggiamenti di fratellanza responsabile. Il che significa né negare la gravità della situazione, ma nemmeno precipitare nella fuga irrazionale del panico, quanto piuttosto seguire le regole sanitarie indicate dalla scienza.

Il panico amplifica a dismisura il pericolo stesso. Succede, come tante volte è accaduto, che una folla presa dal panico per sfuggire a una minaccia, moltiplichi nella sua fuga scomposta la potenza malefica del pericolo dal quale vorrebbe fuggire.

Basta che in una piazza, come è accaduto, qualcuno gridi un qualche allarme che scatenandosi il panico finiscono per morire nella calca più persone per il panico che non per il pericolo in sé.

È il momento di un’enorme assunzione di responsabilità collettiva.

Impariamo, nella nostra vulnerabilità, ad alzare ogni giorno, gli occhi al cielo per dire “Padre nostro” ed essere capaci così anche di rivolgere lo sguardo sugli altri per vivere non da nemici, ma da fratelli.

(Os 2,7-22; Lc 15,11-32)

[1] Significativi i nomi dei tre figli: Izreel, Dio semina; Lo’ruhamâ, La non amata; Lo’ammî, Il non popolo mio: i nomi dei tre figli indicano una severità crescente del Signore.