IV DI QUARESIMA o Domenica del Cieco - Gv 9, 1-38b


Credo che molti di noi arrivati alla fine del brano siano giunti alla conclusione che per quell’uomo nato cieco debba essere stato relativamente facile credere in Gesù. Cosa non saremmo disposti a fare noi per poterlo vedere, noi che crediamo senza aver visto!

Certamente dei cinque sensi che il Signore ci ha donato, il vedere è il più sollecitato dalla nostra cultura che ha fatto dell’immagine, e di tutto quello che questo comporta, uno dei criteri di verità della vita. Ma non è una novità se pensiamo all’importanza del “vedere” nella filosofia e nell’arte della Grecia antica fino all’illuminismo, da sempre ritenuto il più abile tra i sensi alla verifica empirica della ragione umana.

La vera novità che non finiremo mai di scoprire è quello che ci racconta Giovanni, non solo in questo passo, ma in tutto il suo vangelo che dopo il prologo si apre con la risposta di Gesù al primo chiamato Andrea, fratello di Pietro, che aveva chiesto: «Rabbì dove dimori?». Cosa risponde il Signore? «Venite e vedrete» (21, 38-39).

Per giungere alla fine al mattino di Pasqua quando Giovanni stesso che era corso al sepolcro insieme a Pietro, dopo aver lasciato che questi entrasse «allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette» (20, 8).

Tutto il vangelo di Giovanni è innervato da questa dinamica del vedere e del credere, e noi potremmo concludere facilmente che per Giovanni vedere sia uguale a credere.

Se non che quando gli apostoli dicono a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore!», l’incredulo apostolo risponde: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi …» (20, 25), il Signore dirà a lui e a noi: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e crederanno» (20, 29).

Risposta che significa almeno due cose:

Anzitutto non è sufficiente vedere per credere: anche nel passo di oggi c’è chi crede di vedere e non vede e per contro c’è chi non vede e, incontrato Gesù, comincia a vedere.  Così come sono stati in molti a vedere i miracoli compiuti da Gesù, ma non tutti credettero in lui.

Inoltre ci siamo anche noi in questa storia del cieco nato. Andiamo a leggere anche gli ultimi versetti che non sono stati inseriti nella lettura liturgica, quando Gesù dice: «È per un giudizio che sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (9, 39). Allora che cosa “possiamo” vedere?

Nessuno di noi credo abbia la pretesa di vedere Dio, perché in lui si crede, non lo si può vedere. Ricordate l’invito perentorio della Torah: «Ascolta Israele!» con la proibizione di rappresentare l’Eterno: non ci si può fare immagine alcuna di lui senza scivolare nell’idolatria.

Anche se, casomai vi capitasse, provate ad entrare in una sinagoga e troverete scritto su una qualche parete il tetragramma sacro con le consonanti ebraiche del nome di Dio … e anche l’Islam, che conserva la proibizione delle immagini, tuttavia fa delle parole del Corano delle autentiche opere d’arte: il vedere in qualche modo si accompagna al credere.

Ma che cosa si può vedere? Se penso ai nostri contemporanei che non credono è evidente che dubitano dell’esistenza di Dio, mentre l’esistenza di Gesù difficilmente viene negata. Gesù è anzi considerato una figura significativa. Magari si può dubitare della sua divinità, ma non della sua umanità. Secondo molti Dio è un’illusione, ma nessuno può dire che Gesù lo sia: un uomo in carne e ossa non è un’illusione. Nessuno può dire che sia una leggenda, quella di Gesù è una storia. Nessuno può dire che sia un sogno: quella di Gesù è una vita vera, non un sogno. Neppure si può dire che sia un mito: quella di Gesù è una croce storica, non un mito! Tuttavia riconosciamo che c’è anche un mistero di Gesù: pur essendo ebreo, pur essendo vissuto duemila anni or sono, sembra un nostro contemporaneo.

Pur appartenendo a un mondo radicalmente diverso dal nostro, lo sentiamo parte del nostro mondo. Ha delle parole e dei gesti che arrivano direttamente dentro il nostro cuore. Se un uomo così è stato possibile, c’è ancora speranza per l’umanità.

Se dal grembo della storia umana è venuto fuori un uomo come Gesù, allora davvero un altro mondo è possibile. Ci interpella la sua umanità, la sua diversità. Si può essere uomini così come lo è stato lui.

La figura di Gesù affascina, suscita interesse ancora oggi come quel giorno quando, subito dopo l’ingresso in Gerusalemme, alcuni Greci che erano in città, vanno dall’apostolo Filippo e gli dicono: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21).

Una domanda bellissima, che mi sembra raccolga il senso della pagina di oggi e che è nel cuore di tanti intorno a noi, di tanti giovani che sono delusi magari dalle loro chiese, dai loro preti, da un cristianesimo troppo opaco per riflettere la luce di Gesù.

Delusi dalle chiese, perché le chiese sono lo specchio delle povertà e delle meschinità dei cristiani, anziché essere lo specchio del Cristo. Come quei greci, tanti nostri contemporanei ci dicono più o meno esplicitamente: «Vogliamo vedere Gesù».

Cosa succede dopo questa richiesta nel vangelo? Filippo va da Andrea e insieme si recano dal Maestro e gli dicono: «Guarda Signore che ci sono dei Greci che vogliono vederti, quando gli diciamo che sei disponibile, fissiamo loro un appuntamento?».

Come risponde il Signore a questa richiesta? Risponde in modo strano, anzi sembra quasi non risponda per niente, che ignori la domanda, infatti dice: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12, 24).

Sembra dire il Signore: i greci vogliono vedermi? Voi volete vedermi, volete un appuntamento?  Bene io ve lo do, ma non subito, non qui né ora, ma tra poco, alla croce.

Chi mi vuol vedere, chi mi vuol incontrare non deve restare qui nel tempio, deve venire con me sul Golgota. Lì vedrà manifestarsi la mia gloria che è la gloria di Dio.

Supremo paradosso! Come si può vedere la gloria nell’ignominia, la vittoria nella sconfitta? La vita nella morte? Riusciranno i Greci a resistere a quello spettacolo?

Certamente la gloria di Dio si manifesta in tanti modi: nel creato, perché i cieli narrano la gloria di Dio (Sal 19); ma anche dalla bocca dei bambini e dei lattanti (Sal 8; Mt 21, 16): ogni bambino che nasce, ogni vita che fiorisce, racconta la gloria di Dio. Questa gloria si manifesta poi nella storia d’Israele, dalla liberazione dalla schiavitù in Egitto a tutte le altre occorse nei secoli fino a oggi. In ogni liberazione che si compie su questa terra, Dio manifesta la sua gloria.

Più che mai però la gloria di Dio si manifesta nella vita di Gesù: è attraverso questo prisma che è la passione, morte e risurrezione di Cristo che possiamo vedere il volto di Dio.

Ed è a questo che ci conduce l’itinerario quaresimale: andiamo anche noi verso la notte di Pasqua a lavare ancora nelle acque dell’Inviato i nostri occhi che sono bramosi di vedere altra gloria, altro onore e altro successo.  

Laviamo gli occhi del cuore perché siano attratti da colui che è stato trafitto: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12, 32). È ancora una questione di vedere, una questione di sguardi, ed è bellissimo questo «Attirerò tutti»!

Non solo alcuni ebrei, non solo alcuni greci, ma tutti gli uomini possono vedere Gesù, proprio tutti, anche tutti quelli che oggi ci chiedono di vedere Gesù e se non lo trovano nell’istituzione, possano almeno trovarlo nella vita che si spende con amore e con intelligenza, nella vita del semplice discepolo che diventa trasparenza di Vangelo.

(Gv 9, 1-38)