I DOMENICA DOPO PENTECOSTE - Solennità della Santissima Trinità - Gv 16, 12-15
L’esodo ci dice di un ‘pazzo’ che nel bel mezzo del deserto, mentre pascola il gregge del suocero, si mette a parlare con un cespuglio… e noi abbiamo detto che è Parola di Dio. Ma come, direbbe oggi qualcuno dei nostri amici non credenti, come non passare al vaglio dell’intelligenza un racconto simile? Come non provare commiserazione o pietà per Mosè? E anche per tutti coloro che credono in lui?
Eppure se fosse uno dei soliti visionari, uno di quei personaggi investiti di una certa religiosità, ieri come oggi, avrebbe fatto tutt’altro. Invece non costruisce totem o statue di Dio, non gli edifica santuari, piuttosto parla con un linguaggio, tutto suo, di una relazione. Non gli importa dimostrare se Dio esiste o meno, si rende consapevole di due cose, almeno quelle che io colgo dal testo, vale a dire: c’è un Dio che entra in relazione con te e ti scalda il cuore, e non si tratta di un’idea o di un concetto astratto di cui debba convincere qualcuno. Ed è un Dio che ti chiede di fare delle cose per la tua gente.
Cosa abbia sperimentato Mosè davvero, non lo sappiamo se non il fatto di aver avvertito come un’esperienza di fuoco che non gli appartiene, un fuoco che non ha acceso lui e tantomeno lo alimenta lui, la sua è un’esperienza spirituale, nel senso più vero, non un qualcosa di vago, sentimentale, etereo… ma di una relazione intima la cui autenticità è possibile cogliere nel fatto che non rimane circoscritta a un suo progetto, ai suoi sentimenti o ai suoi pensieri, infatti, ecco la seconda cosa, gli chiede di diventare strumento di liberazione per la sua gente, perché questo Dio ascolta il pianto e la disperazione della povera gente.
L’esperienza che Mosè compie è un dono ardente, di fuoco: Dio c’è. Io ci sono, dice Dio. Io ci sono, come ci sono sempre stato. Un Dio così ti prende: non chiede cose per sé, piuttosto, perché ha ascoltato il grido di dolore e di sofferenza, vuole liberare la sua gente.
Ed è un Dio strano perché non fa nulla da solo, ha bisogno di Mosè come ha bisogno di me, di te, di chiunque si lasci scaldare il cuore per liberare l’umanità dalla schiavitù.
Lui c’è. Noi ci siamo? Davvero Dio ci scalda il cuore, davvero la nostra chiesa vuole la liberazione dell’uomo e della donna? Da che cosa ci vuole liberare Dio? O non avvertiamo il bisogno di essere liberati? Quale liberazione oggi?
La prima liberazione, come ricorda Paolo, è da una falsa idea di Dio che viene dalla paura, ed è una falsa idea perché un dio vive della paura degli schiavi, dei sudditi, di gente che vive come paralizzata.
Non solo, abbiamo bisogno anche di essere liberati dallo spirito del mondo, del sistema… che ci rende consumatori rassegnati e obbedienti, soggiogati e sacerdoti di una finanza che domina i rapporti e le relazioni. Siamo schiavi di una cultura dell’individualismo narcisista; siamo schiavi dell’apparire e dell’esclusione dei poveri; siamo schiavi di un moralismo ipocrita.
C’è un mondo che attende liberazione. Ed è questa la missione che Gesù affida ai suoi, alla sua chiesa: non parla di organizzazione, di ministeri, di ruoli, non si preoccupa di distribuire il potere… Gesù fa dono dello Spirito perché questo fa lo Spirito: continua a sostenerci nella missione di liberare la gente, per guidarci a tutta la verità, dice in Giovanni.
Cosa significa guidarci a tutta la verità? Se la verità è Gesù (Io sono via, verità e vita, Gv 14,6), allora lo Spirito ci conduce al Cristo totale, completo… lo Spirito ci invita non solo ad avere lo sguardo su Gesù, a fissare i nostri occhi in lui, in quanto dispensatore di salvezza, ma a volgere, anzi a spostare lo sguardo che si è concentrato a lungo su di lui, e dirigerlo verso dove Gesù stesso guarda.
Siamo soliti dividere la storia tra prima di Cristo e dopo Cristo. Ora questo non è solo un dato cronologico, vivere post Christum, dopo Cristo, non significa solamente vivere come Gesù ci insegna e ci domanda di essere, ma di guardare dove lui fissa lo sguardo, perché dopo di lui la vita ha una direzione, un orizzonte che comporta l’abbandonare la credenza mitica nella fine del tempo, per una coscienza attiva di vivere nel tempo della fine.
L’avvento di Gesù e del regno di Dio segna una rottura della continuità temporale e apre uno spazio sospeso. Andare verso il Cristo totale non significa altro che segnare il passo tra questo mondo che passa e un mondo altro già presente in chi crede nel Vangelo.
In altri termini la resurrezione è l’inizio della liberazione che ha come orizzonte l’incontro col Cristo totale. La risurrezione è una trasformazione che investe la totalità della creazione, inaugurando il tempo della fine.
Ogni risurrezione, ogni rinascita è parte di quella liberazione che Dio vuole da noi e che ha come orizzonte, come méta il Cristo totale, come direbbe Teilhard de Chardin, il Punto Omèga, il Cristo cosmico.
Se la scienza ci dice che l’uomo viene dall’evoluzione, ebbene vivere dopo Cristo vuol dire avere una direzione verso la quale l’evoluzione cammina, verso la pienezza di Cristo.
La stoffa dell’universo non è fatta di sola energia-materia, essa è materia e spirito, energia e interiorità.
Forse con questa prospettiva e con questo sguardo, partecipiamo più consapevolmente al mistero della Trinità di Dio, e impariamo a vivere questo mondo così complesso, questo tempo con tutte le convulsioni della storia e dell’evoluzione, con uno sguardo che sa guardare lontano.
In una preghiera Teilhard de Chardin scriveva: Vivere della vita cosmica significa vivere dominati dalla consapevolezza di essere un atomo del corpo del Cristo mistico e cosmico.
(Es 3,1-15; Rm 8,14-17; Gv 16,12-15)