III DOPO L’EPIFANIA - Mt 14, 13b-21


E oggi che cosa moltiplichiamo? Mi vengono in mente le file interminabili di persone che fin dalle ore più improbabili della notte attendono l’apertura di un negozio per acquistare l’ultimo modello di smartphone! Ecco questo si moltiplica oggi: non il pane, non ciò di cui c’è più bisogno, oggi moltiplichiamo gli oggetti, le cose e consumiamo, resi ebbri dalla gioia e dal piacere del momento fino al nuovo modello… ed è una vera e propria tristezza!

Se può in qualche modo consolarci, sappiamo che questa tristezza non è solo dei nostri tempi. La prima lettura del libro dei Numeri, libro che riprende la narrazione del cammino nel deserto delle tribù ebraiche guidate da Mosè dopo l’uscita dall’Egitto, racconta della gente che dopo tre giorni (!) di cammino comincia a lamentarsi. Dopo tre giorni sono già stanchi.

Anzitutto dobbiamo notare come viene descritto questo insieme di persone: gente raccogliticcia, sì proprio così. Non erano le tribù d’Israele? In realtà verremmo a sapere – se chi ha curato il lezionario non avesse operato una selezione – che Mosè aveva invitato altra gente ad aggiungersi alle tribù, gente del posto esperti conoscitori delle piste che attraversano il deserto. E di deserto si parla anche nel vangelo di Matteo, notate anche se siamo vicino al lago, per due volte si indica il luogo come un luogo deserto (eremon topon).

È la condizione paradigmatica della nostra umanità: siamo tristi, siamo scontenti, non sappiamo gioire di quello che siamo. Sembra di sentirla la gente di Mosè: Dicono che Dio ha fatto di noi un popolo di gente libera, ma noi conosciamo nel deserto la disgrazia del nostro vivere quotidiano. Era meglio prima! Erano così buoni i cetrioli d’Egitto, i cocomeri, i porri… Solo manna, che nausea!

Arrivano le quaglie… ma dopo un po’… che nausea anche le quaglie! Stavamo meglio in Egitto. Potessimo tornare lì. Non sappiamo che farcene di questa libertà. Era meglio prima.

E se la prendono con Dio e con il suo ambasciatore, Mosè. Infatti Mosè non si rivolge a coloro che potrebbero essere da lui ritenuti meritevoli di qualche rimprovero. Non rimprovera nessuno. Parla con il Signore. Che è come dire: è lui il vero “colpevole”: il vero disastro della storia è che Dio ci ha dato la libertà. Era meglio rimanere schiavi. In che senso? Che forse traiamo piacere dall’essere dipendenti? Non tanto perché ci sia un qualche piacere ad essere sottomessi, ma nel senso che Dio si rappresenta come una necessità.

Quando sei nella prova, nella fatica o nella sofferenza ti appelli a dio, lo scrivo in minuscolo perché si tratta di un idolo, diremmo oggi di un “patrono”. E noi sappiamo chi è il patrono, anche lessicalmente è una sfumatura di padrone. Nell’antichità romana il patrono era colui che, avendo liberato uno schiavo, conservava su di esso determinati diritti e doveri. Il patrono garantisce benessere ai suoi clienti a certe condizioni, come un boss!

Le tribù d’Israele, ma anche noi stessi vorremmo un dio patrono, nel senso deteriore del termine, un idolo al quale chiediamo di darci la manna, di darci le quaglie, di darci la fortuna…. Chiediamo di moltiplicare le cose fino a quando la nausea ce ne farà chiedere delle altre…

Allora la nausea, come diceva Sartre, non coincide semplicemente con uno stato d’animo passeggero, è una condizione di vita, una condizione esistenziale: è la tristezza di una vita che si appoggia alle cose e al loro patrono! Non è la tristezza delle lacrime, ma la tristezza di chi vive nella certezza che la vita sia tale che l’unica cosa che possiamo fare per non peggiorare le cose, sia di sottometterci alla disciplina dell’economicismo, del consumismo…

La tristezza, la nausea sociale e personale ci induce a pensare di non avere alternative a una società come la nostra. Non è tirannia questa? Il tiranno, il patrono ha bisogno della tristezza perché così ognuno si isola nel suo piccolo mondo virtuale e inquietante, proprio come gli uomini tristi hanno bisogno del tiranno per giustificare la propria tristezza. Non c’è niente di più facile che disciplinare un popolo che vive nell’ossessione della insicurezza e della paura: si arriva facilmente ad armare un popolo di pecore, quando tutte sono convinte di essere lupi per le altre.

Anche nel deserto si pone la stessa situazione: Torniamo dal faraone. Ed è quello che oggi si ripete cambiando i nomi e i riferimenti, ma se pensiamo di poter essere felici solo nel modo individualista del consumo, dell’avere… saremo eternamente condannati alla noia, alla nausea, alla tristezza.

Nel vangelo di fronte a una folla esagerata da sfamare con un’espressione disarmante Gesù dice ai suoi: Avete cinque pani e due pesci? Voi stessi date loro da mangiare.

La reazione dei discepoli di fronte al problema è la nostra stessa reazione di fronte alle questioni della vita, quando le riduciamo a un problema individuale: lasciali andare, ognuno pensi per sé! I discepoli, e noi con loro, fanno le loro obiezioni in nome del buon senso, dell’economia, dell’efficienza, ebbene a questa obiezione, il Signore risponde chiedendo di sostituire al verbo «comprare» il verbo «donare».

Il primo passo concreto contro la tristezza è la creazione di legami concreti di solidarietà, ma in forme diverse, molteplici. Donate voi stessi. Assumere il nostro destino comune, rompere l’isolamento, creare forme solidali è l’inizio di un impegno, di una militanza che funziona non più contro qualcuno o qualcosa, ma per la vita, per la gioia di vivere insieme.

Questo moltiplica e vince la nausea e la tristezza dei tempi presenti.

È possibile ancora oggi moltiplicare non le cose, ma la vita. Proprio quest’anno un paese come il Costa Rica celebra il 70° anniversario dall’abolizione delle sue Forze Armate: di cielo, di mare e di terra, per dirla con chi si affacciava a Piazza Venezia[1]. Un paese che si è classificato lo scorso anno primo in America Latina e dodicesimo al mondo in felicità[2]. Questo paese tropicale, che ospita la più grande densità di specie al mondo, è orgoglioso delle sue politiche ecologiche e gode di uno standard di vita doppio rispetto a quello di altre nazioni centroamericane[3].

L’esperimento del Costa Rica senza militari iniziò nel 1948, quando il ministro della Difesa Edgar Cardona supportò l’idea dell’ex ministro dell’Interno Alvaro Ramos di investire in istruzione e salute. José Figueres, allora presidente provvisorio, presentò la proposta all’assemblea costituente, che l’ approvò. Il cambiamento portò immediatamente a molti progressi, fu così che si consolidò la civiltà rurale, vennero costruiti grandi ospedali, ma soprattutto, ci fu un massiccio incremento di istruzione [4].

Noi i nomi di quei coraggiosi politici non li conosciamo nemmeno, ci sono pressoché sconosciuti, perché sono sempre più noti quelli che distribuiscono noia e fanno la guerra. Dovremmo sapere vedere i moltiplicatori di speranza e di vita, invece di costruire monumenti ai dispensatori di nausea e di morte.

Pensate che i 64 milioni di euro al giorno spesi in Italia per le Forze Armate sono pari a 23 miliardi di euro all’anno. Non dico l’abolizione, per il rispetto dei patti internazionali, ma il dimezzamento sarebbe un gesto coraggioso. È come se il governo italiano decidesse di convertire i 13,5 miliardi per i bombardieri F35 in cultura, salute, ambiente, patrimonio artistico e salvaguardia del suo paesaggio. Sarebbe un miracolo… di vita!

Così come potrebbe essere un miracolo quello che chiediamo al Signore in questa settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Il desiderio di ritrovare l’unità tra le chiese cristiane che per secoli si erano fatte la guerra nacque proprio tra i missionari provenienti dai diversi paesi europei e dalle diverse chiese cristiane che avvertirono per primi la necessità di essere uniti, di cercare insieme la comunione per annunciare il Vangelo in terra di missione, come si diceva allora.

Oggi non si tratta solo di moltiplicare riunioni, documenti, prediche… ma visto che sono le genti e i popoli a venire da noi, non sarebbe un segno ecumenico capace di dare verità alla preghiera se tutte le chiese da quella cattolica, a quella valdese, luterana, anglicana, evangelica diventassero, come è già iniziato negli USA, ‘santuari’ di asilo politico per coloro che sono destinati al rimpatrio, non perché criminali, ma perché privi di documenti. Si tratta di una vera e propria deportazione perché vengono rimandati nell’orrore che avevano sperato di lasciarsi indietro.

Negli USA non tutte le chiese offrono ospitalità a tali persone, ma tutte si impegnano a sostenere i minacciati di deportazione sia offrendo assistenza legale, ma soprattutto con l’impegno da parte di pastori o preti, di accompagnare queste persone in tribunale o dalla polizia.

Chissà se anche le Chiese in Italia, dove sono sempre più frequenti le deportazioni di migranti per la sola ragione di essere senza documenti, sapranno aprirsi alla vita. Bruxelles intende rimpatriare un milione di migranti irregolari. Un’operazione questa quasi impossibile, oltre che costosa, ma che rivela quale politica la UE stia perseguendo.

È vero che siamo una civiltà che non fa figli – ha detto Papa Francesco – ma se anche chiudiamo la porta ai migranti. Questo si chiama suicidio[5].

Leggevo in questi giorni che anche in Israele un gruppo di rabbini ha lanciato una campagna per accogliere i clandestini e impedire che Eritrei e Etiopi siano deportati e finiscano incatenati dai trafficanti di esseri umani.

Torniamo alla domanda iniziale: e noi che cosa moltiplichiamo? Una domanda che farei anche a tutti coloro che oggi promettono l’impossibile: Quello che dico e quello che faccio moltiplica la vita o produce altra noia e tristezza?

(Nm  11,4-7.18-20.31-32; Mt  14, 13-21)

 

[1] www.unimondo.org

[2] Secondo il World Happiness 2017

[3] Ad eccezione di Panama che trae profitto dal Canale di Panama

[4] Secondo il rapporto sulla competitività globale 2016-17 del World Economic Forum il Costa Rica primeggia nella sanità e nell’istruzione primaria, ha il secondo tasso più basso di mortalità infantile dopo il Cile e un tasso di alfabetizzazione pari al 98%.

[5] 22 aprile 2017