III DI PASQUA - Gv 1, 29-34
Le letture che abbiamo ascoltato ci fanno conoscere alcuni degli stati d’animo che gli apostoli provarono dinnanzi a Gesù risorto. Nella lettura degli Atti, abbiamo ascoltato Pietro e Giovanni che con franchezza, con parresia, resero conto della loro relazione col Signore dinnanzi a coloro che lo avevano crocifisso.
E di fronte al rischio di fare la stessa fine, non ebbero alcuna paura, non ebbero alcun timore della prigione, di poter essere arrestati e perseguitati… Pietro è irriconoscibile da come si era comportato il giorno dell’arresto di Gesù. La forza gli viene da quell’incontro che lo ha profondamente cambiato e che esplicita dicendo: quel Cristo di Nazareth che avete crocifisso, Dio lo ha risuscitato dai morti!
L’altro atteggiamento che ben conosciamo perché forse è quello che più ci rappresenta, è quello di Tommaso che si manifesta inizialmente scettico e incredulo. E lo possiamo ben comprendere perché Gesù è vivo, ma siamo anche oltre la vita, siamo di fronte a una modalità di vita che sovrasta il nostro modo di intenderla. Siamo nel tempo, perché gli incontri del Risorto avvengono in un momento preciso, ma siamo anche fuori dal tempo, oltre il tempo misurato dei nostri calendari.
Siamo nell’impossibilità e inadeguatezza del comunicare un mistero così sorprendente come quello della risurrezione di Gesù. Ma se non si può comunicare, come lo si può annunciare? Se le nostre parole non riescono ad esprimere il mistero, come condividerlo?
Possiamo ricorrere all’analogia, vale a dire possiamo cercare di capire se noi qui già riusciamo a fare una qualche esperienza di risurrezione, se nella nostra vita riusciamo a percepire cosa significhi risorgere.
La prima analogia cui possiamo pensare è quella dell’amore. L’amore ci permette di rivivere nel cuore il legame con una persona cara, di riviverla nel pensiero, nel ricordo delle cose fatte insieme. Quella persona non c’è più… eppure rivive nel ricordo e nell’affetto.
Ma fino a che punto questa via analogica è autosuggestione, o addirittura è un bisogno di conforto e di sicurezza per cui la mente si costruisce delle risposte per placare l’angoscia?
Ecco si arriva a un punto critico, un punto sul quale molti oggi si incistano per giustificare il loro atteggiamento scettico, agnostico di fronte a una vita dopo la morte.
Allora possiamo ricorrere alla via per così dire “digitale”. Nel linguaggio informatico e elettronico con l’aggettivo “digitale” dall’inglese digit, cifra, ci si riferisce a un sistema numerico binario… Ma in realtà il termine “digitale” viene dal latino digitus che fa pensare al dito di Tommaso che vuole toccare per credere, vuole mettere il dito nelle ferite di Cristo: vuole verificare per dire che colui che gli sta innanzi non è un’illusione, non è un’autosuggestione.
Se la prima, la via analogica è per così dire una via più emotiva, emozionale, affettiva, la via digitale è quella empirica, oggettiva, che persegue i criteri di scientificità. Ma anche questa conduce a un livello oltre il quale non si riesce ad andare.
Gesù è stato visto in croce, è stato visto morire, ma al tempo stesso Tommaso lo incontra vivo, mette il suo dito nelle ferite. Com’è dunque? Gesù è risorto, vive in una dimensione altra, ma ancora porta su di sé le ferite? È risorto, nel senso che appartiene a una dimensione diversa, e com’è che mangia con i discepoli? È risorto e vivo, entra nel Cenacolo in modo misterioso, come se non avesse corporeità eppure parla ai suoi, compie dei gesti, fa delle cose…
Insomma nemmeno per questa via riusciamo a venire a capo dell’esperienza del Risorto che hanno fatto i discepoli e alla quale diamo l’adesione della nostra fede.
Possiamo percorrere una terza via che chiamerei semplicemente, la via spirituale. Spirituale è un termine sfortunato perché nella mentalità comune spirito si oppone a materia. Nella fantasia gli spiriti sono esseri immateriali, senza corpo, diversi da noi. In questa percezione ciò che è spirituale non è materiale, non ha corpo. Quando diciamo di una persona che è spirituale o molto spirituale si pensa a uno che non si preoccupa delle cose materiali, che non si cura del suo corpo, che cerca di vivere unicamente delle realtà spirituali.
Quindi abbiamo la necessità di decostruire il senso popolarmente ovvio della spiritualità, come di una realtà fuori dal mondo, non-materiale ed è quello che ci permette di fare l’ascolto della Scrittura, nella quale lo spirito non è qualcosa che si oppone alla materia, al corpo, ma ciò che si oppone alla morte, alla caducità, a quella che spesso le Scritture chiamano la carne, ciò che è fragile.
Nella lingua ebraica, la parola spirito, ruah, significa vento, soffio, alito, ovvero una dimensione della vita che non è solo suggestione, illusione, autocompiacimento… perché il vento anche se non lo vedi, esiste e lo verifichi negli effetti che procura: le fronde degli alberi si muovono, le cose vengono sollevate e trasportate.
Lo spirito è come il vento leggero, potente, travolgente, imprevedibile. Ma soprattutto è come il respiro, il soffio che spinge la persona a respirare: chi respira vive, chi non respira muore. Lo spirito non è un’altra vita, ma il soffio della vita, ciò che la rende quella che è.
In questo contesto semantico, lo spirito non è qualcosa che sta fuori dalla materia, fuori dal corpo o fuori dalla realtà, ma qualcosa che sta dentro, che inabita la materia, il corpo, la realtà, e le rende quello che sono; dona loro forza, le muove, le impulsa, le sospinge alla crescita e alla creatività in un impeto di libertà.
C’è una metafora che ci accompagna allegramente nei giorni di pasqua, ed è la metafora dell’uovo. Ormai, ridotti a consumatori, facciamo fatica a comprendere il segno e ne percepiamo solamente l’uso e il consumo. Ma osserviamo questo segno: se noi dovessimo rompere un uovo, dovessimo cioè schiacciarlo, colpirlo così da infrangere il guscio, cosa otteniamo? Che uccidiamo la vita che c’è dentro. Abbiamo la morte.
Se invece, lasciamo che sia l’uovo a rompersi dall’interno, ne scaturisce la vita: esce il pulcino.
Se lo rompi dall’esterno procuri morte, ma se l’uovo viene rotto dall’interno nasce la vita. Ecco un’immagine della vita spirituale, della vita risorta del Cristo. È entrato nell’abisso della morte, ma l’ha scardinato dall’interno prorompendo di vita.
Ed è quello che compie Gesù risorto sui discepoli e non lo aveva mai fatto prima: «Soffiò e disse loro ricevete lo Spirito Santo e perdonate i peccati». Gesù non rinfaccia i loro pur evidenti peccati: tradimento, rinnegamento, paura… sono stati dei vigliacchi di per sé. Rimproverandoli dal di fuori li avrebbe fatti sentire in colpa e sarebbero morti dentro! Questa è la morte. Il Signore invece porta in se questo dolore, questa morte e la vince dall’interno avvolgendo della sua tenerezza e del suo amore le ferite di quell’amicizia e di quell’affetto che li avevano legati insieme.
La comunità dei discepoli, ferita dal tradimento, dal rinnegamento e dalla paura e perdonata, è la Chiesa risuscitata, rigenerata dal soffio dello Spirito Santo e inviata a sua volta a rigenerare la vita spirituale, che significa perdonare, prendersi cura della fragilità dell’uomo, come ha fatto il suo Signore.
Ed è ciò che fa la comunità descritta negli Atti, nella prima lettura. È una chiesa che agisce nel nome di Gesù. Sappiamo che nell’ebraismo “il nome” è una perifrasi frequente per designare l’Eterno stesso il cui nome è impronunciabile. Il nome non è una formula magica, non è il pronunciare il nome che salva, ma è identificarsi con colui che continua a inviarci dal di dentro delle nostre morti quello Spirito che solo ci può rigenerare.
Ogni peccato ha in sé un’intima matrice di paura e noi così produciamo la nostra bruttezza. Ma c’è una forza più grande che è capace di vita ed è il dono dello Spirito ed è questa la missione in cui Gesù ci coinvolge: siccome il Padre ha mandato me, io mando voi. La sua missione di Messia, è la nostra stessa missione. Ogni cristiano ha la stessa missione di Cristo.
Lo Spirito è il dono della liberazione dalla nostra povertà che solo Dio può fare. Solo Dio ci guarisce dal nostro cattivo uso della libertà. Ricevere il dono dello Spirito non significa fare chissà che cosa, compiere chissà quali gesti… ma rigenerare, rivivere.
La vita spirituale, la vita del Risorto è ciò che vi è di più profondo in noi stessi, quello che ci fa essere ciò che siamo, quello che ci rende umani.
Da qui ne deriva per noi una spiritualità dell’abbandono, nata dalla coscienza che l’Amore assoluto ci spinge verso una maggiore umanizzazione e che non dobbiamo fare altro che seguire questo impulso.
Noi non siamo esseri umani che vivono un’esperienza spirituale, ma siamo esseri spirituali che vivono un’esperienza umana.
(At 4,8-24; Col 2,8-15; Gv 20, 19-31)