XIV DOPO PENTECOSTE - Mt 5, 33-48


È la domenica del “compimento”, della pienezza, nel senso che a questa categoria teologica ci rimanda la parola di Gesù. Nelle cosiddette sei antitesi di cui noi ne abbiamo lette tre e che seguono le Beatitudini, Gesù afferma appunto per sei volte consecutive: Avete inteso che fu detto… ma io vi dico. Dove quel ma io vi dico non è un avversativo di opposizione, anzi è il modo in cui Gesù afferma che la sua missione non è quella di abolire la Torah, di cancellare l’alleanza di Dio col suo popolo e che ha nei comandamenti il codice etico di riferimento.

Gesù non è una meteora e tantomeno un fungo che emerge estemporaneo dalla terra… anzi Gesù si inserisce nella storia che da Abramo vede l’alleanza di Dio con noi attraversare i secoli fatti di tradimenti, d’infedeltà, di incoerenze, ma nonostante tutto l’Eterno manifesta la sua stabilità, una stabilità che giunge a pienezza in Gesù.

Infatti quale direzione può avere la storia biblica che stiamo ascoltando in queste domeniche dopo Pentecoste? Quale direzione può avere anche la nostra stessa vita, la nostra breve o lunga biografia? Se non quella della pienezza, del compimento? In Gesù abbiamo il compimento e la pienezza della promessa di Dio, in Gesù abbiamo la pienezza della Parola di Dio, per cui non attendiamo più altre rivelazioni, non abbiamo bisogno di altre parole, perché la parola definitiva è quella del Vangelo.

Ebbene questa categoria teologica, assume una valenza anche etica. Infatti nel Discorso della montagna Gesù esemplifica in alcune situazione concrete che cosa comporti la pienezza del Vangelo che appunto non cancella né rimuove la Torah ma la porta a compimento.

Nella pagina di oggi abbiamo la declinazione di questo compimento su tre livelli etici, vale a dire nelle parole che usiamo, nei gesti ce compiamo e negli affetti del cuore. Tre situazioni molto precise, concrete che riguardano la nostra vita e che ci permettono di comprendere come appunto Gesù non sia venuto ad abolire i comandamenti, ma a dare loro pienezza, compimento. Gesù stressa per così dire il concetto e lo porta avanti, lo conduce oltre, direi addirittura oltre l’umano possibile.

Sia il vostro parlare sì e no. Non solo Gesù va oltre la parola del giuramento così precisamente normata dai comandamenti, ma indica ai discepoli di parlare il meno possibile, perché le parole sono spesso troppe e malvagie. Proviamo a pensare anche noi a quante parole inutili abbiamo detto, alle parole cattive che abbiamo pronunciato… Si tratta di parlare meno, perché a parlare sia la vita, siano appunto i gesti.

Porgi l’altra guancia, ecco sono questi sono i gesti che parlano. Ormai l’espressione è diventata proverbiale ma in un senso denigratorio, perché la consideriamo ingenua, idealistica, improponibile. Già il decalogo aveva compiuto un passo avanti nel normare il risarcimento: occhio per occhio, quando invece prima la vendetta era anche esagerata e non ammetteva limiti alcuni. L’aver contenuto la misura della vendetta nell’entità del danno subito era a ragione già un progresso etico. Gesù conduce oltre questo pensiero e indica una mèta avanzata, al di sopra delle nostre possibilità forse, ma è l’unico modo per fermare la violenza.

Lo vediamo anche in questi giorni violenza chiama violenza, guerra chiama guerra, vendetta chiama vendetta… l’unico modo, dice Gesù, in cui si può invertire la tendenza è di arrestare questo processo, di opporre una resistenza pacifica, di reagire al violento con la non violenza…

La motivazione di questa scelta non è tuttavia idealistica né tano meno ideologica, ma affinché siate figli del Padre. Perché il Padre fa così con i suoi figli, non si vendica con loro, non agisce per reazione e ripicca, ma fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, fa sorgere il sole sui buoni e sui malvagi. È ricco di misericordia.

Infine c’è un compimento che avviene nel cuore dell’uomo: un cuore capace di lasciare spazio anche ai nemici, a coloro che perseguitano, a chi ci fa del male. E Dio sa che i nemici sono molto più vicini a noi di quanto pensiamo, non sono lontani, sono qui, magari nella stessa casa, nello stesso ufficio…  La proposta del vangelo non è una proposta che si fonda sul principio di reciprocità. Se ne fa un gran parlare nel dialogo con le altre religioni, con l’islam in particolare: ma Gesù non ha atteso di essere riamato per amare. Ha amato, punto. Così la misura dell’amore del discepolo ricalca quella del Maestro.

Certo è difficile, anzi direi appunto oltre l’umano. Ma qui sta il compimento della Torah: la perfezione di cui parla Gesù, non è la perfezione ellenistica che non prevede sbavature, errori, debolezze. La cultura della perfezione umana è una cultura dell’ipocrisia, perché così non è, e se lo fosse, sappiamo anche che dura davvero poco. Dunque la perfezione cui siamo chiamati a tendere non è quella dell’impeccabilità, ma quella dell’amore cui tendere senza mai arrendersi.

Tendere alla perfezione dell’amore, al compimento, alla pienezza di Cristo significa non ridurre il vangelo alle nostre possibilità, alle nostre capacità. Perché il nemico del compimento è la mediocrità. Di questi tempi riproporre la paradossalità del Vangelo esige coraggio.

Lo ricordava papa Francesco alla veglia con i giovani a Cracovia: “Amici, Gesù è il Signore del rischio, è il Signore del sempre “oltre”. Gesù non è il Signore del confort, della sicurezza e della comodità. Per seguire Gesù, bisogna avere una dose di coraggio, bisogna decidersi a cambiare il divano con un paio di scarpe che ti aiutino a camminare su strade mai sognate e nemmeno pensate, su strade che possono aprire nuovi orizzonti, capaci di contagiare gioia, quella gioia che nasce dall’amore di Dio, la gioia che lascia nel tuo cuore ogni gesto, ogni atteggiamento di misericordia. Andare per le strade seguendo la “pazzia” del nostro Dio che ci insegna a incontrarlo nell’affamato, nell’assetato, nel nudo, nel malato, nell’amico che è finito male, nel detenuto, nel profugo e nel migrante, nel vicino che è solo. Andare per le strade del nostro Dio che ci invita ad essere attori politici, persone che pensano, animatori sociali. Che ci stimola a pensare un’economia più solidale di questa. In tutti gli ambiti in cui vi trovate, l’amore di Dio ci invita a portare la Buona Notizia, facendo della propria vita un dono a Lui e agli altri. E questo significa essere coraggiosi, questo significa essere liberi!”.

Abbiamo anche noi parole di cui ci pentiamo, gesti di cui ci vergogniamo, un cuore inquieto perché privo di coraggio, questo accade perché non abbiamo a confidare in noi stessi e ad arrenderci alla mediocrità. Il compimento sta innanzi a noi a ricordarci che non siamo arrivati, che siamo in quella situazione di cui ci parlava il libro di Esdra sul finale, quando diceva che per un verso il popolo cantava ed esultava per la gioia della costruzione del Secondo tempio, ma che al tempo stesso c’era chi piangeva ricordando la bellezza ineguagliabile del primo.

Anche noi siamo così, anche il nostro cammino avverte tutta la fragilità e debolezza di cui siamo capaci, la gioia di quello che vorremmo essere e la delusione di quello che siamo, ma questo è il nostro cammino, questa è la nostra direzione: andiamo verso quella pienezza d’amore alla quale attingiamo in ogni eucaristia.

(Esd 3, 7.10-13; Mt 5,33-48)