III DI PASQUA - Gv 14, 1-11a


audio 18 aprile 2021

Paradossale che nel libro degli Atti, il carceriere si rivolga a due detenuti chiedendo loro: Cosa devo fare per essere salvato? Il carceriere chiede ai detenuti come salvarsi, e Paolo e Sila rispettosamente gli rispondono: Credi nel Signore Gesù e poi proclamarono la parola a tutti quelli della sua casa, i quali per tutta risposta si misero a curare le loro ferite, li fecero salire in casa e apparecchiarono la tavola.

Oggi se mai capitasse qualcuno che ci ponesse la stessa domanda: Cosa devo fare per essere salvato? cosa saremmo in grado di rispondere? Molto probabilmente lo inviteremmo a venire in parrocchia, a frequentare il catechismo così che possa arrivare a fare con convinzione la professione di fede.

Siamo forse ancora convinti che per salvarci sia sufficiente dire di credere e non fare tutto il resto? Perché abbiamo ristretto la fede a un’adesione mentale ad alcune verità, indubbiamente necessarie, ma finendo così per rinunciare, come è accaduto per secoli, all’annuncio della Parola, finendo altresì per relegare ai santi della carità il curare le ferite, rinunciando anche a quella fraternità che apre la casa e alla condivisione della tavola, come cose non necessarie alla fede?

Oggi non possiamo più accettare un cristianesimo mutilato di queste dimensioni che esigono certamente l’atto di fede in Gesù, ma che devono essere accompagnate dalla familiarità con il Vangelo, dalla cura per le ferite dei piccoli e dei poveri e dalla condivisione fraterna.

Il cristianesimo delle origini ha assunto una sua forma istituzionale a partire da queste istanze fondamentali ed è così che ha saputo ascoltare le domande dei contemporanei, offendo una unità profonda di fede e di vita, di valori e comportamenti, di Vangelo e di storia.

Noi siamo sulla faglia di un cristianesimo di transizione, di una forma di cristianesimo che deve passare da una condizione che per molti è una tradizione cui si dovrebbe nostalgicamente tornare, a un cristianesimo invece in grado di rispondere alla sete diffusa di un mondo diverso, di un mondo nuovo, una sete che si è ravvivata durante questo tempo di pandemia. Ma sapremo rispondere? Saremo in grado anche come chiesa non semplicemente di tornare alle cose di prima, ma di offrire una risposta alla sete di spiritualità e di umanità insieme?

Per saper dare risposte, bisogna prima saper ascoltare le domande. Nel passo di vangelo di oggi, potrebbe risultare facile prendere la frase centrale di Gesù e farla diventare una bandiera, un titolo, ridurla a uno slogan: Io sono la via, la verità e la vita da usare ovviamente contro chi non crede in lui perché noi l’abbiamo capito, è una bella frase.

In realtà per capire la risposta di Gesù dobbiamo saper comprendere le numerose domande che abbiamo ascoltato dal vangelo di Giovanni e che nel contesto del Cenacolo durante l’ultima cena, dicono il clima, la tensione e l’ansia per quello che poteva accadere e che in qualche modo era nell’aria.

Pietro a nome di tutti chiede: Signore dove vai? E Gesù risponde con le prime battute del passo di oggi: Vado a prepararvi un posto.

Poi anche Tommaso lo incalza: Ma se non sappiamo dove vai come possiamo conoscere la via?

E ancora Filippo esprime un desiderio che è una domanda: Mostraci il Padre e ci basta!

Domande intense che vanno anche collocate nel contesto in cui l’evangelista scrive il Vangelo, perché gli interrogativi degli apostoli danno voce all’inquietudine di tanti che provenendo da varie culture, come il carceriere della prigione di Filippi, nel nord della Grecia (Macedonia) chiedono un senso alla vita, una salvezza.

Quando Gesù dice di sé: Io sono la via, Giovanni lo rivolge a quei greci che aveva di dinnanzi a sé e che avevano in mente come la vita fosse, secondo una metafora a loro più famigliare e sempre attuale, più un labirinto che altro. Come quello che Minosse, re di Creta, aveva fatto costruire dal mitico architetto Dedalo per rinchiudervi il mostro del Minotauro.

Il labirinto è un’immagine che ancora oggi esprime il cammino della nostra umanità che sembra tante volte girare a vuoto, non avere una direzione, un orientamento. Siamo dentro un labirinto di idee, di tecnologia, di cose, di informazioni che a volte vivere è come girare da una stanza all’altra in un labirinto. Ogni volta sembra di aver trovato la strada giusta, la risposta definitiva e invece è un inganno. Subito arriva la novità, l’urgenza, la necessità che soppianta la precedente, sempre più rinchiusi nelle gabbie dell’effimero e del superficiale.

Ecco il labirinto è il contrario della via, non perché non si cammini, ma perché pur camminando, anzi tante volte correndo e andando di corsa, non si arriva da nessuna parte, come a inseguire il mostro che in realtà ci divora, ci abita!

In alcune chiese come nel duomo di Siena, in san Vitale a Ravenna e nella cattedrale di Chartres… in epoca medievale il labirinto veniva riproposto come metafora del faticoso cammino dell’uomo verso Dio, simbolo del pellegrinaggio o di un cammino di espiazione: spesso veniva percorso durante la preghiera e sostituiva il pellegrinaggio per chi non poteva intraprendere un vero e proprio viaggio a Gerusalemme, ad esempio.

In realtà, seguendo la via percorsa da Gesù, camminando per la via del Vangelo, veniamo introdotti alla verità della nostra vita, che è la seconda metafora di Gesù quando dice «Io sono la verità». Quella sulla verità era stata anche la domanda di Pilato rimasta in sospeso quando appunto chiese a sé stesso e a Gesù: Che cos’è verità? Un’altra di quelle domande che tolgono il sonno.

Ora dalla cultura egizia i contemporanei di Giovanni avevano imparato a personificare la verità nella figura della Sfinge che con un corpo da leone e un volto d’uomo – un volto impenetrabile – materializza l’enigmaticità fondamentale del mondo, della vita, della storia. Accovacciata su una rupe nei pressi della città di Tebe, divorava tutti i passanti che non sapevano dare risposta all’enigma che poneva loro: “Qual è l’animale che cammina con quattro gambe al mattino, con due a mezzogiorno e con tre la sera?”.

L’enigma è l’uomo, l’essere umano. Così diciamo di una persona impenetrabile, che non lascia trasparire nulla di quello che pensa o sente e che ha uno sguardo indecifrabile, misterioso, che è una sfinge!

Quando Gesù afferma di essere la verità, non pronuncia un principio astratto, come se volesse rispondere a un indovinello, tutt’altro: con la sua morte e risurrezione manifesta la verità della vita umana.

La verità della persona non è la sfinge, anche se c’è una gran parte di enigmaticità nella nostra condizione umana, che è anche la fatica che ciascuno di noi deve compiere, ma Gesù risorgendo, vincendo la morte, dischiude l’orizzonte e il senso del nostro andare e del nostro vivere che va oltre la morte, in una vita che è per sempre, quella che il Padre ha pensato per Gesù e per noi.

Ed è la terza parola di Gesù: «Io sono la vita», proposta in una cultura come quella dell’impero romano che diceva, con le parole del commediografo Plauto (+184 a.C.): Homo homini lupus… Gesù parla di vita, quella appunto che il Padre ci fa conoscere nel risuscitare Gesù dalla morte. Una vita nella quale siamo condotti da lui e con lui come fratelli e non come lupi gli uni per gli altri.

Ora nessuno di noi può sapere quale forma il cristianesimo assumerà, in un futuro che non pare nemmeno essere tanto lontano. Credo che ciò che possiamo fare oggi sia tornare al modo di fare di Gesù, vale a dire imparare ad ascoltare le domande che salgono dal cuore della gente, le inquietudini di chi si interroga che ci raccontano di una grande sfida spirituale nella crisi attuale, ma non per difendere un modo di essere chiesa, un’istituzione umana come essa tuttavia è, ma per andare all’essenziale: annunciare il Vangelo, prendersi cura di chi è ferito e aprire le porte di casa per vivere la fraternità.

“La chiesa non può vivere per sé stessa e la preoccupazione per la sua sopravvivenza non può far parte delle sue priorità. Essere al servizio del proprio ambiente umano e terreno alla maniera del servo Gesù fa parte della sua ultima ragion d’essere” (C. Theobald, Il popolo ebbe sete).

(At 16,22-34; Gv 14, 1-11a)