II DOPO L’EPIFANIA - Gv 2, 1-11


Abbiamo ascoltato una di quelle pagine evangeliche tra le più conosciute, anche se il fatto di essere famose non significa necessariamente che siano anche comprese. C’è un’attenzione anzitutto che dobbiamo porre ed è quella appunto di decostruire una presunta conoscenza, quasi fosse scontato il senso e il significato del perché Gesù abbia voluto trasformare 600 litri di acqua in vino, ad una festa di nozze, magari facendo adirare anche i produttori di vino locali, in indubbio svantaggio di fronte al Signore!

Il fatto che Giovanni tenga a sottolineare che questo è il primo dei segni e se noi prendiamo il Quarto vangelo nel suo insieme veniamo come portati per mano da cinque segni successivi a questo, vale a dire: al cap. 4, 46: la guarigione del funzionario del re; al cap. 5,2: la guarigione dell’infermo a Betzatà; al cap. 6,5 la moltiplicazione pani e pesci; al cap. 9,1: la guarigione cieco nato; e infine al cap. 11,1: la rianimazione di Lazzaro.

Giovanni diversamente dai sinottici che parlano di miracoli, li definisce segni, Gesù le chiama le sue opere (5,36) e scegliendone sei ci fa intuire che dobbiamo aspettarci un settimo segno. Qual è il settimo segno? qual è la settima opera che Gesù compie e che essendo la settima è l’apice, il culmine di tutte le altre e alla luce della quale possiamo comprendere la prima?

Anzitutto cogliamo un primo indizio che è dato dalla presenza della madre, di Maria. Giovanni è molto discreto nel parlare nel suo Vangelo della madre di Gesù: la incontriamo qui e poi non ne parla più fino al Calvario, allorquando, dalla croce Gesù si rivolge a sua madre non chiamandola per nome e tantomeno “mamma”, ma chiamandola ancora donna.

Non c’è alcun passo del Primo testamento o del Nuovo in cui un figlio si rivolga alla propria madre con un titolo così disadorno. Anche per noi suona come una mancanza di rispetto se non addirittura come un rimprovero risentito, eppure Gesù usa lo stesso appellativo anche quando si rivolge ad altre figure femminili chiamate a credere o invitate a una fede più profonda: Donna la tua fede ti ha salvata, va’ in pace (Lc 7,50)!

E quale momento più intenso di quando si è davanti alla morte e alla morte di un figlio, necessita ancor più di fede?

Abbiamo poi un secondo indizio nelle parole di Gesù quando rivolgendosi a sua madre e le dice: Donna la mia ora non è ancora venuta (v.4).

Fino al momento del Getsemani quando Gesù rivolgendosi al Padre così prega: Padre, è venuta l’ora. Quella è l’ora decisiva, quella verso la quale converge tutta la sua vita, l’ora  nella quale avviene la più grande trasformazione, la trasformazione della morte in vita!

Quindi la settima opera, il segno per eccellenza di cui la trasformazione dell’acqua in vino è anticipo, è la trasformazione della morte in vita. Potremmo dire che la missione del Cristo si manifesta, è epifania, nel trasformare: a creare ci pensa il Padre, Gesù trasforma e cambia la tristezza di una religiosità formale (di cui erano segno le sei giare di acqua per la purificazione) nella gioia di una festa! Fino a trasformare la morte in vita.

Qui si insinua un’ambiguità che purtroppo, con mia sorpresa ma anche disappunto, ho ritrovato in alcuni studiosi contemporanei, perché qualcuno di loro ancora oggi scrive che il segno di Cana è il momento in cui Gesù sostituisce alla Legge, all’acqua del Primo/Antico Testamento, il vino del Nuovo Testamento[1]!

E preparandoci noi alla Giornata del dialogo ebraico cristiano è importante che sciogliamo queste ambiguità, perché Gesù trasforma non sostituisce. La differenza è fondamentale. Se Dio avesse voluto cambiare l’alleanza avrebbe fatto nascere suo Figlio tra… gli eschimesi, cioè in un altro popolo, sostituendo così Israele con un popolo “presumibilmente” migliore… ma così facendo anzitutto avrebbe dimostrato di non essere di parola!

E un Dio che non è di parola, non è nemmeno tale: prima promette per sempre e poi toglie? Sarebbe un Dio inaffidabile. Non solo ma un Dio che sostituisce un popolo a un altro creerebbe nuove esclusioni, alimenterebbe nuove divisioni… invece per il fatto che è stato fedele nel portare a compimento la sua promessa dentro l’ebraismo, proprio per questo ha potuto estendere la sua promessa alla partecipazione di tutti i popoli, di tutte le generazioni.

Che Gesù sia morto da ebreo e sia risuscitato, cioè abbia trasformato la morte in vita a partire dal popolo della promessa, questo ha potuto aprire e spalancare a tutti le porte del banchetto proprio come auspicava Isaia: Preparerà il Signore per tutti i popoli su questo monte (Gerusalemme) un banchetto (v.6).

Non è il miracolo che interessa, come invece a volte nella superstizione avviene: è il segno del miracolo. E il segno è appunto che l’intenzione di Dio è quella che al banchetto della vita dell’umanità ci sia la gioia del vino, ci sia la letizia esuberante, la convivialità dell’esistere, la pace, la gioia.

C’è un altro momento in cui Gesù parla del vino, e sono parole drammatiche che noi conosciamo bene perché in ogni eucaristia ne facciamo memoria: Questo è il calice del mio sangue versato per voi! C’è una frase che viene riportata da Matteo e che invece spesso sfugge, quando Gesù dice: Non berrò più di questo vino, fino a che non lo berrò insieme a voi nel regno di Dio (26,29).

Parole che stanno a dire che c’è un’attesa, c’è un frattempo fino a quando Gesù tornerà, quando ci sarà la trasformazione finale… allora Gesù berrà insieme con noi. Andiamo verso un brindisi finale, verso la trasformazione di un’umanità felice, conviviale, fraterna dove abbonda la felicità…, ma nel frattempo la realtà di tutti i giorni ci dice il contrario. Viviamo in una società dominata dal principio che l’altro è un pericolo, il diverso è una minaccia per cui dobbiamo difenderci… così come non ci deve sorprendere se per noia due ragazzini danno fuoco a una persona.

Dal punto di vista delle dinamiche sociali risulta indubbiamente più facile e semplificatorio perseguire il vecchio modello del capro espiatorio sul quale scaricare le frustrazioni e le paure, sul quale far convergere tutte le magagne del nostro vivere piuttosto che guardare in faccia i veri problemi che sono endemici se pensiamo alla corruzione, al sistema malato e alle infiltrazioni mafiose nei diversi livelli delle istituzioni… e se questo scaricare sul capro espiatorio che è sempre l’anello più debole della società è fatto da chi dovrebbe esercitare l’arte della politica per governare il bene comune, allora la responsabilità è ancora più grande oltretutto perché è da vigliacchi e da codardi opprimere il debole, lo straniero, il povero.

Ma noi siamo testardamente ostinati a credere che sia possibile trasformare la nostra convivenza che di civile ha sempre meno, perché governata dalla paura, dall’indifferenza, dall’odio e dalla violenza.

Se è vero che il più inclusivo di tutti i simboli è il convivio, è il banchetto, allora possiamo dire che la trasformazione dalla società in cui siamo nella società nuova di cui abbiamo bisogno, è la trasformazione dalla società della competizione e della paura in una società conviviale e fraterna.

Non abbiamo alternative: o facciamo questa trasformazione o ci distruggiamo.

E voi direte come si può fare questa trasformazione? Se prendiamo a fondamento la parola evangelica, se osserviamo la strada percorsa da Gesù egli ha potuto trasformare la sofferenza, la mancanza, la povertà, la disperazione e persino la morte amando fino in fondo. Fino in fondo. È questo quello che manca, ma non manca solo ai non credenti, manca soprattutto ai suoi discepoli, manca a ciascuno di noi.

Diciamo Signore, Signore… ma potessimo credere con tutte le fibre del nostro essere che possiamo cambiare le cose, non perché non proviamo la paura, l’angoscia, il dolore… ma perché con Gesù possiamo proprio trasformarle.

Ogni domenica partecipiamo al banchetto, al convivio. Ogni domenica ci nutriamo dell’eucaristia, parola e pane. Ogni domenica attingiamo a questo amore che è il frutto di una profonda trasformazione quella di Gesù che in parola e pane si dona a noi.

Allora lasciamoci amare. Di fronte all’eucaristia, immagine del banchetto e del convivio dell’umanità, cui tutta l’umanità è invitata, lasciamoci raggiungere non tanto da quello che ciascuno di noi può fare per Dio, ma lasciamo che sia lui a riversare il suo amore su di noi. A volte è più difficile lasciarsi amare che amare.

Potremmo guardare diversamente i problemi che incontriamo nella nostra società proprio a partire dall’eucaristia, dal banchetto della convivialità.

Così come potremmo celebrare diversamente la giornata del migrante e del rifugiato, se imparassimo a guardarli da qui, dall’eucaristia, dall’amore di Dio che si dona gratuitamente, che immeritatamente continua ad amarci e perciò stesso saremmo costretti a cambiare prospettiva.

I migranti spesso sono rappresentati come persone bisognose da assistere, aiutare, proteggere, schiacciati spesso in una rappresentazione vittimizzante e paternalista… vederli camminare attraverso le Alpi, sui sentieri di alta montagna non con i doposci o le giacche di piumino, ma vestiti di coraggio, di forza, rivestiti della determinazione di chi parte, perché l’unico vero pericolo è tornare indietro… sono per noi un irresistibile imperativo a cambiare.

Gesù non fa uscire dal suo cilindro il vino speciale, ma trasforma l’acqua della purificazione rituale in vino e il fatto stesso che questo segno sia posto all’inizio della vita di Gesù ci dice che già ora è possibile una trasformazione, mettendosi in gioco in prima persona.

Quante e quali situazioni possiamo trasformare così? Quanti insuccessi, paure  e tristezze possiamo cambiare?

Miracoli non riusciamo a farne, ma possiamo porre in essere dei segni di trasformazione mettendoci in gioco… fino a quando torneremo a bere con Gesù, a tavola con lui.

(Is 25,6-10; Gv 2,1-11)

[1] Cf Meier, Un ebreo marginale, vol 2° pp 1180ss