II DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 5, 19-24
La festa della dedicazione della chiesa parrocchiale è l’occasione per noi anzitutto per fare memoria grata di chi ben 557 anni fa (10 settembre 1460) costruì questo luogo di preghiera e di fede. È suggestivo pensare che queste mura oltre ad aver ascoltato preghiere, aver assistito celebrazioni dei sacramenti, aver udito ore e ore di annuncio della Parola di Dio… hanno accolto la vita di tantissime persone con le loro speranze, le loro gioie, qui tantissimi hanno pianto e hanno gioito. Non solo ma queste mura hanno anche assistito ai grandi mutamenti storici e culturali, scientifici e religiosi e vorrei dire si sono impregnate di umanità… Se potessero parlare!
La nostra chiesa venne costruita grazie alla famiglia Sforza poco prima della scoperta delle Americhe, quando ormai l’umanesimo cedeva il passo al Rinascimento, che fu anche il secolo della riforma protestante e poi della Controriforma. Pensiamo poi alle convulsioni belliche, militari e politiche del 1600, alle gravi epidemie, ma anche alle scoperte scientifiche del 1700 e alla fine delle monarchie assolute, alla nascita della classe operaia e della società industriale nell’800. Queste mura hanno vissuto le Cinque giornate della città… fino alle due guerre mondiali!
Sarebbe oltremodo interessante, e anche estremamente formativo fare memoria storica, anche perché se lo sguardo è grato e riconoscente verso chi ha tenuto salda la fede nei secoli, questa memoria ci provoca lo stimolante pensiero se e come anche noi siamo capaci, non tanto di costruire altre nuove chiese, ma di essere la chiesa di Gesù oggi, con le tensioni e i problemi che abbiamo, con le sfide che la storia ci fa incontrare.
Cosa vuol dire essere cristiani oggi? Anzi, perché non lo siamo da soli e la festa della dedicazione ce lo ricorda, che cosa vuol dire essere chiesa oggi, che non è lo stesso anche solo di cinquant’anni fa. Io non ho risposte facili, ma se ci mettiamo alla scuola della Parola di Dio, mi rendo conto che anzitutto a noi manca una visione, proprio quella che il profeta Ezechiele descrive nella prima lettura.
Il profeta Ezechiele ha una visione mentre è deportato e vive in Babilonia: lui è lì, in schiavitù insieme con gran parte della sua gente ed è capace di una visione di Gerusalemme, quella Gerusalemme da cui sono partiti tra le lacrime e che non c’è più. Ha una visione del tempio dopo aver visto il tempio di Gerusalemme ridotto a pietre e cenere: la gloria del Signore entrò nel tempio… ma non c’è più nemmeno quello!
Il profeta ha una visione, che non è dettata da sostanze o da estasi mistiche, l’uomo di Dio vede la fedeltà del Signore tra le macerie, perché Dio dice: Io abiterò in mezzo ai figli d’Israele per sempre (v.7)
Ora noi non siamo deportati né il tempio è distrutto, ma la nostra condizione che è indubbiamente nel segno dei cambiamenti rapidi e profondi, ha bisogno di una visione, di un orizzonte.
Ricordo di aver ascoltato le parole addolorate di chi ricordava con nostalgia le celebrazioni in cui la chiesa era gremita all’inverosimile, di chi aveva vissuto l’oratorio maschile e femminile allora frequentatissimi, di chi aveva nel cuore le lunghe chiacchierate sotto il pino nel chiostro grande… Indubbiamente è una parabola quella che stiamo vivendo, ed è proprio per non indugiare al lamento che abbiamo bisogno di una visione!
Ed è questo ciò che chiediamo al nuovo vescovo di Milano, all’arcivescovo Mario. A lui chiedo anzitutto il triplice atteggiamento proprio del vescovo che Papa Francesco ha indicato nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium: «Il vescovo a volte si porrà davanti per indicare la strada e sostenere la speranza del popolo, altre volte starà semplicemente in mezzo a tutti con la sua vicinanza semplice e misericordiosa, e in alcune circostanze dovrà camminare dietro al popolo per aiutare coloro che sono rimasti indietro e – soprattutto – perché il gregge stesso possiede un suo olfatto per individuare nuove strade (31).
Ma se potessi fargli arrivare la mia voce, una seconda cosa gli chiederei con tutto me stesso: aiutaci ad avere una visione di chiesa.
Non vogliamo una chiesa, come diceva Paolo nella seconda lettura, in cui c’è chi collabora e costruisce in silenzio e fedeltà (v.9) e c’è che chiacchiera e distrugge (v.17), e purtroppo spesso questi ultimi sono i più numerosi.
Vogliamo una chiesa, e ce lo stiamo dicendo da anni, meno centrata su di sé, sulla sua organizzazione, sulla difesa dei suoi legittimi interessi, meno autoreferenziale…
Io non ho da proporvi una visione di chiesa, la mia prospettiva è minima, viene dalla periferia, dal confine di un’umanità fragile e segnata dalla violenza, dalla distanza dai mondi religiosi… ma ho un’immagine che mi viene suggerita dal vangelo, per quello che capisco del Vangelo di oggi, ed è l’immagine di una chiesa simile all’albero di sicomoro sul quale è salito Zaccheo per vedere Gesù.
Sì, forse a noi è chiesto di svolgere la funzione che ha avuto il sicomoro per Zaccheo, vale a dire rendere possibile l’accesso verso Gesù.
L’importanza che la chiesa permetta di incontrare Cristo è tale che dovremmo relativizzare tante cose, organismi, strumenti, curie e uffici… perché si possa permettere il realizzarsi della parola di Gesù: Il figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto.
Solo Gesù può salvare ciò che è perduto. Non noi. Ma almeno noi facciamo in modo di non essere né come la folla di Gerico (i devoti, che ripropongo la religiosità), né come i discepoli (gli impegnati) che con il loro agitarsi (le infinite pastorali…), senza cattiveria, di fatto impediscono che Zaccheo, il perduto, possa vedere Gesù.
Una chiesa talmente libera nella sua missione che permetta, per rimanere nella metafora del sicomoro, di salire per vedere Cristo. Questo è l’essenziale, perché il nostro annuncio più andiamo avanti più ha bisogno di concentrarsi su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario. Ed è un processo di semplificazione che non per questo perde profondità e verità, anzi diventa più convincente e più radioso.
Come diceva papa Francesco ieri a Medellìn: Fratelli la Chiesa non è una dogana; richiede porte aperte… Non possiamo essere cristiani che alzano continuamente il cartello “proibito il passaggio”. La Chiesa non è nostra, è di Dio… per tutti c’è posto… noi siamo semplici “servitori” e non possiamo essere quelli che ostacolano tale incontro.
Una seconda cosa mi suggerisce l’immagine della Chiesa come sicomoro, perché insieme a questo permettere di salire sull’albero per vedere e per ascoltare Gesù, il vangelo dice che Zaccheo scese in fretta e questo ci suggerisce che c’è anche una libertà nel poter scendere dall’albero.
Cosa significa fuori di metafora scendere dall’albero? Significa mettersi in movimento, significa che dopo aver visto e ascoltato Cristo non puoi non far sì che anche le gambe e le mani si mettano in movimento e conducano Zaccheo a fare un’esperienza inedita, come fu quel giorno l’ingresso di Cristo nella sua casa di corrotto e corruttore pubblico!
Zaccheo vede e ascolta Gesù, ma poi lo accoglie nella sua casa. Gesù non vuole portare Zaccheo in chiesa, ma porta Dio in casa di Zaccheo! E questa è la libertà e la novità che porta Gesù in casa di Zaccheo.
E quando entra lo Spirito di Dio, quando entra il figlio dell’uomo in quella casa… ne esce la ricchezza. Ne esce l’iniquità, ne esce la corruzione, la disonestà… e non c’è bisogno che Gesù gli faccia la morale!
Per essere chiesa così di fronte alle sfide del nostro tempo e che sono tante, la paura, la violenza, il razzismo… ebbene cosa possiamo fare noi? Per dirla con le parole di Dietrich Bonhoeffer, cosa potremo fare noi contro la stupidità umana che dilaga? Contro la stupidità non abbiamo difese. Lo stupido a differenza del malvagio, si sente completamente soddisfatto di sé. Si tratta comunque di un difetto che interessa non l’intelletto, ma l’umanità di una persona.
E noi impariamo proprio da Gesù, dalla sua umanità, che di fronte al peccatore più incallito di Gerico non si lascia spaventare, ma incrocia il suo sguardo, si invita a casa sua… Non a caso il titolo che Signore applica a se stesso è proprio questo: Il figlio dell’uomo! Non sarà l’appartenenza o meno a una chiesa, a un’idea piuttosto che a un’altra a renderci più o meno umani, ma il modo in cui ci viviamo la nostra umanità.
Come sarà stata la casa di Zaccheo dopo quel giorno? Di che cosa si sarà parlato lungo le sere, con la televisione spenta e senza cellulari? Dell’esperienza di un amore che Zaccheo non si è meritato, dell’attenzione di un figlio d’uomo che ha reso vicino un Dio che non pone condizioni né criteri d’accesso, della possibilità di un futuro inedito e diverso da quello che tutti si potevano immaginare per lui.
Potessimo avere la visione del profeta Ezechiele!
Potessimo vedere l’amore fedele di Dio tra le macerie!
Tra le macerie delle nostre biografie, tra le macerie delle nostre società, il Vangelo di Gesù cerca chi come il profeta possa salire quel tanto che basta per allargare l’orizzonte di tutti e così scrutare l’amore.
Ricordo che da bambino quando il papà mi prendeva sulle spalle era una grande soddisfazione poter vedere quello che normalmente per ovvii motivi non mi era dato di vedere. Sulle spalle sicure potevo avere una visione diversa delle cose.
Chiediamo al Signore di essere una chiesa dalle spalle robuste che sappia far vedere Gesù.
(Ez 43,1-2.4-7; 1Cor 3, 9-11.16-17; Lc 19, 1-10)