VI DOPO PENTECOSTE - Mt 11, 27-30
Mosè poteva pensare di costruire una qualche struttura religiosa, non vi pare? Ne aveva tutti i motivi: in un posto dove c’è un roveto che arde senza consumarsi e su un terreno dove viene rivelato il nome di Dio… come non pensare di realizzare un santuario, di costruire un centro per i pellegrini, fare un shop center con gadget e ricordini?
Non voglio sembrarvi irriverente, solo che voglio provocarvi ad abbandonare quell’atteggiamento devoto e religioso che sposta la comprensione delle cose dal piano della realtà a quello della magia, della superstizione! Mosè non è un fenomeno e quello che racconta non è per niente “fantastico” nel senso letterale delle cose. Siamo ricondotti sul piano della realtà della vita e siamo invitati dall’esperienza di Mosè ad abitare le nostre contraddizioni senza costruirci santuari e statue per evadere in un mondo falsamente consolatorio, tranquillo, pacifico, che è in definitiva alienato.
No, abitiamo una storia che di pacifico non ha nulla, proprio nulla. E guai a noi se la fede, la spiritualità, la preghiera fossero l’occasione e lo strumento che ci rende alieni dalle nostre responsabilità. Anzi, Mosè insegna che la fede in Dio aiuta a vedere la realtà, a comprendere quello che accade e ad agire, prendendo iniziativa. Sono tre cose che lui stesso ha imparato da Dio: vedere, giudicare, agire.
Anzitutto, dice il Signore, Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido. Secondo: conosco le sue sofferenze. In terzo luogo: sono sceso a liberarlo dal potere dell’Egitto.
Vedere, giudicare, agire. Vedere, discernere, decidersi. Questo è il metodo, così fa Dio: vede quello che noi non vorremmo vedere, quello che Mosè non vorrebbe vedere perché non dimentichiamolo che è fuggito, è scappato nel deserto per paura di qualche rappresaglia dopo che aveva ucciso l’egiziano che angariava un ebreo. Mosè scappa, fugge, evade dalla realtà, non si assume le sue responsabilità e si rifugia nel lavoro, lavora intensamente e meglio dei figli del suo padrone!
Dio no. Il Signore, l’Eterno vede e ascolta il grido che sale da quei disperati che erano schiavi e oppressi. Comprende e discerne la loro dura condizione dandole il nome: schiavitù… e di conseguenza decide di liberare quella povera gente.
Questo è il criterio di verità della fede e della spiritualità: vedere, discernere e agire. Una fede per essere tale deve stare con i piedi ben piantati per terra, proprio come fa Mosè che deve togliersi i sandali mentre sta davanti al roveto che arde.
Cos’è questo fuoco di un roveto che arde ma non si consuma? Se è vero il criterio che la Bibbia si comprende con la Bibbia, ricordiamo un altro personaggio che ha fatto un’esperienza simile, si tratta di Geremia.
Ad un certo punto della sua storia il profeta confida: Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, chiuso nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo (Ger 20,9). Si tratta dell’ultima delle cosiddette Confessioni di Geremia. Giovane straordinario, appassionato e intelligente, dopo essersi dedicato tutto alla missione che ha ricevuto da Dio, si trova ad avere davanti a sé uno spettacolo disumano, indecente, simile a quello che vedeva Mosè. Una situazione nella quale viene spontanea la domanda: Ma dov’è Dio? dove sta quando dilaga l’ingiustizia, la violenza, l’indifferenza, l’odio? Quando siamo capaci di cattiverie inaudite dov’è Dio?
Gli uomini e le donne di Dio non stanno a dare spiegazioni, a fare apologetica, a difendere l’esistenza o meno di Dio… la risposta del profeta, la risposta di Mosè è quella di chi ha un fuoco che brucia dentro e che lo sospinge a reagire, a non starsene con le mani in mano e tantomeno a evadere in facili spiritualismi.
La mia parola, dice il Signore, non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia? (Ger 23,29).
Questa è l’esperienza che Mosè fa di Dio: di una Parola che come fuoco gli brucia dentro e gli chiede di agire, di prendere l’iniziativa. Mosè non poteva stare lassù a costruire santuari in nome di Dio, ma in nome di Dio doveva scendere e intraprendere un processo di liberazione della sua gente!
Un Dio che si rivela con un nome che a noi ormai risulta incomprensibile. Al v. 14 si dice: «Dio disse a Mosè: Io sono colui che sono». In ebraico sono quattro lettere, un tetragramma impronunciabile, anzi vocalizzato in modo sbagliato e fuorviante (Jahwé). Quattro lettere prive di senso. In ebraico abbiamo un gioco di parole ‘ehieh asher ‘ehieh[1]. Ma così risulta un’affermazione astratta, filosofica, poco congeniale al Dio del roveto. Addirittura fa quasi pensare che sia una risposta evasiva, come se Dio rifiutasse a Mosè di rivelargli il suo nome.
Però è vero che in ebraico il verbo essere non si usa in assoluto, ma sempre con la preposizione con o per. Lo diceva al v. 12 Io sarò con te. Lo conferma anche il Talmud. Dio dice a Mosè: Io sono con voi nella schiavitù, perché provo compassione per la vostra condizione, così come sarò con voi anche dopo. Questo significa allora tante cose, non vuol rinchiudere l’Eterno in una definizione astratta, in una gabbia concettuale, ma significa riconoscere Dio come uno che vede la nostra sofferenza, che si muove a compassione per noi, che vuole la nostra liberazione…
Quante volte invece la nostra religiosità è diventata a sua volta una schiavitù, quasi un narcotico per la coscienza al punto da disancorarla dalla realtà, quindi una coscienza incapace di vedere, di giudicare e inabile anche ad agire. Succede quando al fuoco della Parola sostituiamo le nostre pratiche religiose…. In fondo anche in Egitto c’era una religiosità, una visione religiosa delle cose… ma strumentale al dominio del potente di turno, così che gli egiziani stessi erano schiavi!
Nella Bibbia ebraica il libro dell’Esodo prende il titolo dalle prime parole del libro: Questi sono i nomi. L’esodo è un libro di nomi, ma dire Questi sono i nomi è in qualche modo voler definire anche il suo contenuto. Anzitutto perché Dio rivela il suo Nome ineffabile, ma anche perché ci sono i nomi di coloro che vengono liberati. Gli schiavi non hanno un nome, lo hanno soltanto gli uomini liberi.
Ma nella Bibbia non esiste il termine libertà. L’idea di libertà è una scoperta laica della democrazia greca. La Bibbia se deve dire che qualcuno è libero, dice che è figlio di… L’uomo libero è il figlio di. Che sembra un paradosso, ma è la realtà: nessuno di noi è indipendente in modo assoluto, ha sempre una relazione che lo tiene in piedi e per la quale vive.
Tant’è che essere liberati dalla schiavitù del faraone significa entrare al servizio di un Dio così, che c’è, che è fedele, che ha compassione, che ama. Dire Questi sono i nomi, significa dunque i nomi dei figli liberi, delle persone libere.
E noi al servizio di chi siamo? E soprattutto da che parte stiamo? Dalla parte del faraone di turno, del denaro e della morte o al servizio del Vangelo, dell’amore e della vita?
Nella storia il ritorno delle forme di discriminazione, di segregazione, di razzismo… assume i contorni del populismo quando va a toccare la sicurezza economica, a tutelare il garantito, il portafoglio. Di fronte alla minaccia, alla paura di perdere qualcosa, emerge il sentire atavico di difesa istintiva che rende cinici, a qualsiasi prezzo!
E così è accaduto di nuovo, al largo delle coste libiche, a Tojoura. Ed ancora una volta il mare ci restituisce i corpi senza vita di uomini, donne, anziani e bambini. A calare a picco, alle 4 di mattina di venerdì 29 giugno, è stata una piccola imbarcazione contenente 120 migranti di diversa nazionalità. A perdere la vita 30 donne e 70 uomini che si affannavano nelle acque. La guardia costiera libica dichiara la presenza, fra i deceduti, di tre bambini di età inferiore a un anno e mezzo.
Sono figli che non sono stati liberati, non hanno potuto fare l’esperienza dell’esodo perché mentre pensavano di scappare da un faraone ne hanno trovato un altro che li aspettava dall’altra parte e che li ha lasciati morire.
Oggi non mancano i faraoni, mancano persone come Mosè, uomini e donne dal cuore in fiamme, mancano persone come Gesù che vede la stanchezza e l’oppressione di chi gli sta intorno e che si offre come strumento di liberazione. Mancano profeti come don Milani che diceva: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri, allora io dirò che, nel vostro senso, io non ho patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri» (L’obbedienza non è più una virtù, 1965).
(Es 3,1-15; Mt 11, 27-30)
[1] La prima persona dell’imperfetto del verbo essere ripetuta due volte e coordinata da un relativo.