IV DI PASQUA - Gv 10, 27-30
Il libro degli Atti ci dice che il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane… la comunità di Troade (Turchia) si ritrova nel giorno della settimana che ricorda la risurrezione di Gesù e che diventa il primo giorno della settimana. Immaginiamo una comunità con qualche decina di persone, l’apostolo, i nuovi discepoli, uomini e donne, giovani e adulti… un gruppo che non ha altro motivo per ritrovarsi che quello di rivivere il gesto di Gesù nello spezzare il pane.
Da quel gesto i discepoli di Emmaus lo avevano riconosciuto perché Gesù era l’uomo che spezzava spesso il pane, ha insegnato loro la condivisione più che l’accaparramento o l’accumulo di scorte.
Lo spezzare il pane, è dunque un termine molto più pregnante dello squallido “messa”, indica un luogo teologico, perché in quel gesto comprendi la volontà di Dio, il desiderio di Gesù di farci sapere che il Padre questo vuole: che impariamo a condividere, che impariamo a spezzare il pane, che facciamo della nostra vita un dono.
Quando nel vangelo di Giovanni, poche righe tratte dal cap. del buon pastore, Gesù confida la sua profonda identità: Io e il Padre siamo uno, siamo una cosa sola, ci offre il fondamento della sua relazione col Padre, per questo Gesù spezza il pane, perché è quello che il Padre vuole che lui faccia!
Non è un Dio che vuole sacrifici e olocausti. Non ci tratta da schiavi terrorizzati da un dio capriccioso e tiranno. Gesù ci dice che Dio è un Padre e che come ogni padre spezza il pane per i suoi figli e vuole che essi nel mondo imparino a fare lo stesso.
Cosa significa per noi oggi spezzare il pane? Certo è il gesto centrale della celebrazione, ma nella nostra vita, quando spezziamo il pane? Quando condividiamo? Mi ha commosso l’altro giorno sentire il racconto di una delle mamme che accogliamo nelle nostre comunità, in genere molto ripiegate sui propri problemi, sulle proprie storie, donne per le quali si fa molto e alle quali si dona molto, dirmi con grande naturalezza che ha preso la consuetudine mentre si reca al lavoro, di portare del cibo a un povero che incontra regolarmente sulla sua strada.
Una cosa semplice, scontata, forse, ma che mi dà conferma di come sia necessario far crescere le persone nel dono perché possano imparare a donare a loro volta. È un atto di umanità ma anche profondamente teologico, quello di chi cresce ricevendo molto e che ad un certo punto matura la convinzione che deve restituire il bene ricevuto imparando a donare a sua volta.
Continueremo a essere riconosciuti per quelli che vanno a messa o ci riconosceranno dallo spezzare il pane? Sarà questo il cristianesimo del futuro? Ci riconosceranno dal dono e dalla capacità di avere a cuore l’umanità? Saremo riconosciuti per la cura dell’altro, per l’attenzione a chi fa più fatica?
Spezzare il pane per Gesù ha significato donarsi fino al punto di lasciarsi spezzare proprio del tutto, ed è proprio quel gesto che continua ancora oggi ad essere motivo del nostro ritrovarci qui a celebrare il primo giorno della settimana la memoria del Signore, perché quel gesto è vita.
È morte l’indifferenza con cui lasciamo affogare, dopo due giorni di agonia in diretta, 130 persone in mare. È morte la violenza sulle donne perpetrata da giovani viziati e vigliacchi. È morte quando tre ragazze minorenni aggrediscono una loro coetanea disabile esibendo poi la loro bravata sui social. È morte la distruzione dell’ambiente in nome del denaro e degli interessi…
A questa morte contrapponiamo il gesto dello spezzare il pane che è fecondo di vita, un gesto che possiamo declinare in molti modi nelle nostre giornate, nelle nostre scelte e nei nostri pensieri.
Sempre nel libro degli Atti veniamo a sapere che tra l’apostolo Paolo e la comunità dopo aver spezzato il pane, si continua a dialogare, questo è il verbo (dialegomai) che li vede praticamente in conversazione per tutta la notte che dal sabato va alla domenica, al punto che il giovane Èutico, che stava seduto sulla finestra, stravolto dal sonno, cade dal terzo piano. Potremmo sbrigativamente dedurre che Paolo fosse oltremodo lungo e noioso, ma non è così perché non si tratta di un monologo dell’apostolo, ma di un dialogo tra lui e le persone presenti.
Balza agli occhi il contrasto con le nostre liturgie ingessate, irrigidite dentro le regole del rito, dove non possiamo dialogare, dove non possiamo condividere la vita, quello che ci sta a cuore, il pensiero per il mondo… e forse anche per questo che ci si stanca presto e ognuno poi si trova un proprio spazio di dialogo più espressivo e coinvolgente.
A forza di ribadire che la chiesa è maestra, ormai essa crede sempre che debba e solo insegnare agli altri. Ma forse dovrebbe trovare più spazio di dialogo, luoghi di confronto, dovrebbe imparare a fare anzitutto quello che chiede sempre ai fedeli di fare, vale a dire di ascoltare.
Infatti dovremmo, come fa Paolo, ascoltare di più i giovani. Timoteo, di cui non conosciamo esattamente l’età, sappiamo che era figlio di mamma ebrea e di padre greco, educato alla fede dalla nonna Loide, pur molto giovane Paolo lo ha fatto pastore della comunità di Efeso.
Timoteo, come Èutico nella prima lettura, è un giovane e questo mi fa pensare se noi sappiamo riconoscere il dono di Dio ai giovani che sono nelle nostre comunità, nelle nostre società.
Ad ascoltarli i giovani ci sorprendono e sparigliano i nostri pregiudizi e per quanto noi adulti siamo tentati di livellare e omologare le loro diverse posizioni, abbiamo molto da ricevere da loro, se solo fossimo più disponibili e liberi di ascoltarli.
L’esperienza monastica (guarda un po’ dove dobbiamo attingere!) ha messo per iscritto questa necessità, tale era e continua ad essere la tentazione di escluderli dai processi decisionali. Infatti san Benedetto riconoscendo che nelle situazioni difficili e nel perdurare dei problemi tutti devono essere coinvolti, nella Regola puntualizza: “a consiglio siano chiamati tutti, poiché spesso è al più giovane che il Signore rivela ciò che è meglio” (cap.3).
Invece noi siamo resistenti a riconoscere loro un ruolo che non sia solo quello di destinatari delle nostre sapienti iniziative e intelligenti decisioni. Non siamo disposti a fare un passo indietro per lasciare spazio alla loro visione delle cose. È più semplice distribuire loro sussidi, anche se prima o poi questi finiranno e resteranno generazioni senza formazione, con una grave mancanza di professionalità e di competenze necessarie per costruire la società.
Forse varrebbe la pena andare a leggere o a rileggere il libro Pedagogia degli oppressi, scritto dal brasiliano Paul Freire nel 1968 mentre era in esilio in Cile. Non è solo un testo classico della storia della pedagogia, credo che potrebbe essere utile per chiunque educatore, genitore, insegnante abbia a cuore l’educazione umana e la trasmissione della fede con i giovani.
Paul Freire scrive che occorre una educazione che non sia semplicemente «pedagogia depositaria», perché quella è trasmissione di competenze ed è incapace di dialogo, se vogliamo un’educazione che sia pratica della libertà, occorre deciderci per una «pedagogia problematizzante», capace di dialogo che vive di domande, di ricerca, di interrogativi… si tratta in altre parole di umanizzazione o di disumanizzazione, a seconda se vogliamo una pedagogia per la persona o con la persona. Rivolgendosi a un insegnante Freire scrive: «Quando stai andando a scuola interrogati su di te, e se pensi ancora di trasformare il mondo. Perché se così non fosse torna a casa: non avresti niente da dire ai tuoi ragazzi».
Facciamo fatica a renderci conto della tragedia educativa che viviamo. Ci aiuti allora il fare memoria di quei giovani e non solo, grazie ai quali noi oggi siamo qui e viviamo in un paese libero e democratico. Il 25 aprile come 76 anni fa, è stato grazie alla passione, all’intelligenza, al dono di sé che hanno fatto, non solo, ma soprattutto i giovani che abbiamo potuto vincere il fascismo e vivere nella democrazia.
Il Vangelo ci è stato dato grazie al dono di sé di Gesù e dei primi discepoli. La Costituzione ci è stata data grazie al dono di sé di tanti giovani che hanno rischiato la vita. È più che mai urgente che teniamo insieme questi due punti fermi nella nostra vita: sono la dose necessaria di richiamo per il vaccino contro il fascismo.
Spezzare il pane e dialogare, tenere insieme Vangelo e Costituzione. È questa la nostra resistenza oggi contro ogni forma di dittatura che non sia condivisione e che impedisca il dialogo e il confronto.
(At 20, 7-12; 1Tm 4, 12-16; Gv 10,27-30)