III DOPO PENTECOSTE - Mt 1, 20b-24b


A una prima lettura la scelta del vangelo ci pare un poco bizzarra: parla di Giuseppe e del nome che viene dal sogno per quel figlio concepito in Maria sua sposa non da lui, ma dallo Spirito santo…

Ma ci rendiamo conto che questa stranezza dura poco proprio perché il vangelo è la risposta alla pagina della Genesi che, dopo la contemplazione della creazione, introduce oggi il grande interrogativo del male.

La narrazione della Genesi non fa altro che constatare, come ci è dato di verificare ogni giorno, che il male c’è. Nemmeno la Genesi vuol spiegare il male, che rimane per tutti noi un grande mistero nella sua origine, ma registra che il male c’è, esiste, non esiste in astratto ma nella dinamica delle creature.

Siamo creature, dal latino «creaturus» è un participio futuro, siamo cioè un continuo divenire, siamo una realtà dinamica. Il bello e il difficile delle creature è che siamo desiderio, lo dice il termine stesso, «de-sidera» qualcosa che ha a che fare con le stelle. I desideri sono intrisi di stelle, il nostro sguardo è insoddisfatto, vogliamo andare sempre oltre, non accettiamo i limiti che ci vengono imposti, non ci accontentiamo.

Ed è qui, in questa potenziale forza di miglioramento, di sviluppo e di crescita che si insinua il veleno. Qual è il veleno che nel racconto figurativo viene introdotto da un animale malizioso – un serpente che parla! – e che inocula appunto il veleno in maniera astuta: Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e voi sareste come Dio!

L’affermazione è insidiosa: questo Dio che ti fa venire al mondo e ti fa desiderare di migliorare, di avere di più, di non essere mai soddisfatto, però ti pone un limite. E se ti pone un limite allora, ecco il veleno del sospetto, vuol dire che l’Eterno non è poi quell’amore che dice di essere. Se Dio vuole tenere per sé il bene e il male, se decide lui cosa è bene e cosa è male, allora in qualche modo recinta la tua libertà, frustra il tuo desiderio di realizzazione e di felicità.

Cosa puoi fare tu? Mangia dell’albero, dice il serpente, ovvero emancipati, disobbedisci, fai vedere chi sei, diventa tu dio a te stesso!

Ma, notate, l’uomo diventa ridicolo. C’è una sottile ironia che pervade il racconto. Volevano diventare come Dio, avevano un desiderio grande come le stelle e si ritrovano a provare vergogna, a scoprire il disagio della propria nudità: nulla di nuovo, erano già nudi, ma ora è tutto differente.

Cedendo al sospetto che il Signore in qualche modo sia l’antagonista della loro libertà Adamo e Eva, ovvero ciascuno di noi, anzitutto snaturano il rapporto con lui – addirittura in maniera ridicola pensano di potersi nascondere da Dio-; in secondo luogo anche il rapporto tra di loro si inquina e avvelena la fiducia insita nella loro relazione: «È stata lei, è stato lui!».  Infine, anche il giardino, luogo della manifestazione della bellezza dell’Eterno, diventa il luogo dell’opacità e della doppiezza.

In genere le parole che dicono le conseguenze sul mondo parrebbero suonare come il castigo di Dio: così il lavoro, il partorire, la morte stessa sembrano la punizione di un Dio arrabbiato e deluso.

Ma non sono le maledizioni di un Dio che sfoga tutta la sua delusione nei confronti dei due umani che lo hanno amareggiato. Forse che prima la donna partoriva senza dolore? Magari nella mitologia. Può essere che l’uomo si trovasse il pane già fatto senza fare fatica? Questo ci fa comprendere che non sono parole di condanna, ma sono la dolorosa conseguenza che avviene sempre in seguito alla frattura delle relazioni costitutive del mondo, ovvero del rapporto tra Dio, l’uomo e il creato.

Se come dicevamo domenica scorsa, la struttura del mondo è relazione: viviamo del rapporto con Dio, con gli altri e con il creato, nel momento in cui crediamo di esserci fatti da soli, nel momento in cui vogliamo farla da padroni, nel momento in cui non cerchiamo la giustizia dell’Eterno, allora facciamo mancare la nostra parte al disegno di Dio, perché ognuno pensa di essere creatore a se stesso.

Abbiamo scarsa consapevolezza delle conseguenze dei nostri peccati nella struttura relazionale che ci costituisce. Tutt’al più pensiamo di trasgredire qualche norma, qualche legge, di obbedire ai nostri capricci… le pagine della Genesi ci ricordano che come in centri concentrici il male è pervasivo e attraversa il nostro rapporto con l’Eterno, con gli altri e con il creato.

Non credo che parlare come ha fatto Agostino di peccato originale ci aiuti. Sia in Genesi che in Paolo come in Matteo incontriamo una solidarietà umana non solo nel fare il bene, ma anche nell’incapacità di diventare ciò per cui siamo stati creati.

Come è possibile che un uomo innamorato arrivi a uccidere la donna per un presunto amore che anziché dare vita conduce alla morte? come è possibile che una madre possa arrivare a uccidere un figlio… facciamo in fretta noi a emettere una diagnosi, un’etichetta che mette ben chiare le distanze tra noi e loro, ma non basta.

Noi siamo quella possibilità: ogni persona nel momento in cui perde di vista le relazioni costitutive del suo essere al mondo e finisce per essere autocentrata, egodipendente… come si suol dire “perde la testa”, nel senso che smarrisce l’orizzonte di senso del suo essere al mondo. Noi li chiamiamo “mostri”, ma il mostro è una possibilità, reale e per tutti.

Nel momento in cui dimentichiamo di non essere il centro del mondo, di non essere soli, nel momento in cui pensiamo di poter stare in piedi a prescindere dal nostro rapporto con Dio, con gli altri e col creato, allora comincia quel peccato che origina ogni altro peccato, come a cascata.

Proviamo a domandarci: ma in questi miei 30, 50 o 70 anni di vita, cosa posso considerare il peccato originale che ha accompagnato la mia vita e ne ha segnato i miei giorni? Non sarà forse, al di là delle singole debolezze, errori e trasgressioni, l’aver smarrito nell’orizzonte delle proprie azioni, pensieri e affetti il disegno del Creatore?

A questo punto ci possiamo chiedere: da cosa ci salva Gesù? In che senso il Signore è per me il Salvatore, l’Emmanuele, il Dio con noi e non il Dio contro di noi?

C’è un Dio “contro di noi”, ed è l’idolo della paura, il totem della colpa, l’onnipotente sotto la cui ira stiamo come sotto un tiranno.

In Gesù si manifesta il volto del Dio “con noi” che ci salva dalla paura, dalla colpa, e nonostante i nostri peccati continua a sospingerci, a sostenerci, a non farci mancare mai il suo amore.

Il nome di Gesù annuncia che Dio non punisce, sei tu stesso che col tuo odio, il tuo egoismo e le tue paure rendi la vita un inferno. E non la rendi una inferno solo per te, la rendi un inferno anche per gli altri, per chi  ti è vicino e per chi ti è lontano… perché fai mancare l’amore e non permetti il circolare della fiducia e della tenerezza, dell’intelligenza dell’amore che per vivere ha bisogno di Dio, degli altri e del creato.

Gesù ci salva con un amore e per un amore che non finiremo mai di abbracciare, un amore che comincia come diceva il Vangelo dalla decisione di nascere umano tra gli umani fino a quella di consegnarsi ogni domenica a noi come pane spezzato, come vino versato.

Ed è solo così che si può guarire un’umanità ferita, frustrata, centrata su di sé, solo con un amore più grande.

Non c’è legge, dice Paolo, non c’è norma che salvi e non ci sono altri liberatori, ma solo uomini e donne che sono resi liberi per amore e dall’amore.

(Gen 3, 1-20; Rm 5, 18-21; Mt 1, 20-24)