VI DI PASQUA - Gv 14, 25-29
La parola di Dio che abbiamo ascoltato ci invita a continuare la riflessione sulla vita nello Spirito, sulla vita spirituale e in particolare sulle sue implicazioni nella vita quotidiana, nei rapporti col mondo e con la storia.
I protagonisti delle letture sono uomini spirituali, ma non nel senso di persone che vivono fuori dalla realtà, come spesso si intende. Nella lettura dagli Atti degli apostoli abbiamo ascoltato le parole di Pietro che insieme con Giovanni è stato arrestato e imprigionato e ora viene condotto davanti al sinedrio, davanti allo stesso tribunale che aveva condannato Gesù. Il motivo dell’arresto era duplice: perché continuavano a parlare di Cristo morto e risorto e poi perché avevano guarito un uomo storpio di 40 anni, nonostante fossero stati ammoniti di farlo.
Arrestati e condotti in prigione, vengono interrogati e nella pagina di oggi abbiamo ascoltato alcune battute della risposta di Pietro durante l’interrogatorio… e dobbiamo riconoscere che Pietro è molto diverso da come l’avevamo lasciato il venerdì santo!
Con la seconda lettura ci spostiamo a Corinto dove la situazione è molto diversa da quella di Gerusalemme, è una situazione potremmo dire più vicina alla nostra di quanto non si possa pensare. Nella tarda primavera del 50, Paolo aveva portato il Vangelo in questo porto famosissimo, un centro importante di irradiazione della cultura greca…
Negli strati modesti della popolazione si era creata una comunità che aveva abbracciato il Vangelo, una comunità che era tollerata perché la società ellenistica era tollerante, una comunità che non doveva misurarsi con un persecutore esterno, un nemico che la osteggiasse, ma che aveva a che fare con una serie di questioni interne, legate alle mode, alla mentalità, alla cultura, alle tradizioni ellenistiche e che ponevano questioni soprattutto di carattere etico, quali la purezza dei costumi, il matrimonio e la verginità, l’unità e la diversità sociali nella stessa comunità, i rapporti col mondo pagano e l’eventuale ricorso ai tribunali…
Insomma i problemi pratici erano tanti e Paolo avrebbe voluto recarsi a Corinto ma non c’era riuscito e allora nel 54, quattro anni dopo la sua costituzione, invia alla comunità una lettera severa e «scritta tra molte lacrime» (2Cor 2,3s.9).
Lo sforzo di Paolo consiste nel cercare di inculturare il Vangelo in quel contesto e scrive pagine memorabili sulla libertà della vita cristiana, sul primato dell’amore, sulla santificazione della corporeità.
L’intento di Paolo è di mostrare all’uomo che vive di mondanità in che cosa consista essere uomini spirituali e che viene da lui ricondotto essenzialmente all’avere come riferimento in tutto nessun’altro che Gesù, ad avere il pensiero di Cristo, a tradurlo in atteggiamenti che a Gerusalemme non sarebbero nemmeno mai stati immaginati, ma che invece a Corinto si rendevano necessari.
Nel vangelo di Giovanni registriamo l’interiorità di un uomo spirituale che affronta, vive e interpreta i momenti più drammatici della sua vita in una dimensione molto diversa dal solito modo di ragionare.
Qualsiasi cosa accada, l’uomo spirituale, come Gesù ci insegna, tiene sempre vivo il filo rosso con Dio Padre e questo gli permette di affrontare anche la passione e l’ingiusta condanna senza perdere la speranza, anzi lo porta a parlare con i suoi amici di pace e a incoraggiarli a non avere paura, a non lasciarsi sconvolgere.
Sono tre narrazioni che hanno un comun denominatore vale a dire che la vita spirituale è il legare e l’abbracciare nella propria vita quella relazione con Gesù che è fondamentale, perché da essa scaturisce la capacità di fare fronte a un contesto che può essere ostile, come negli Atti, polemico come nel Vangelo o seducente, come a Corinto.
Possiamo dire che la vita spirituale è una, è la vita che nasce dal fatto che siamo uniti a Cristo, che abbiamo sperimentato il suo amore e lo amiamo.
Anche oggi, nel nostro contesto, ci rendiamo conto che non basta più una vita che si possa dire cristiana in base a criteri esteriori di pratica religiosa o di osservanza formale di alcune regole. Oggi, nella nostra società o nelle nostre società, nel tempo in cui viviamo, occorrono uomini e donne spirituali, che vivono la relazione con Cristo qui adesso, non in un passato ritenuto glorioso o in un futuro improbabile.
Rifugiarsi nel passato o fuggire nel futuro significa non credere nello Spirito santo. Significa non credere che lo Spirito come ha guidato Pietro, Giovanni, Paolo… non possa guidare anche noi che viviamo duemila anni dopo di loro.
Pietro oggi cosa farebbe? Non farebbe altro che quello che fece quel giorno a Gerusalemme: accompagnerebbe la sua predicazione con un gesto prezioso e importante, quello di prendersi cura di uno storpio di quarant’anni. Pietro fa’ una scelta di campo precisa, quella che, qualche centinaio d’anni dopo, la teologia della liberazione di fronte a una Chiesa troppo schierata col potere, chiamerà con il termine «opzione per i poveri».
Pietro non si accontenta di annunciare Gesù morto e risorto, pietra angolare della storia del mondo, ma guarendo uno storpio di oltre 40 anni, mostra come questo si concretizzi nella vita prestando attenzione al grido del povero, allo scartato prendendosi cura della sua condizione e accompagnandolo.
Questa opzione dei poveri è un’opzione della spiritualità ed è un’opzione fondamentalmente umana perché rimette al centro coloro che il mondo scarta, quelli che la società dell’efficienza e della performance lascia indietro con indifferenza e superiorità.
Questo ci insegna Pietro. Paolo però mi sembra aggiunga un’altra cosa. Vale a dire che oggi fare l’opzione dei poveri assume per noi anche i caratteri dell’indignazione davanti alle povertà, alle ingiustizie, alle oppressioni e agli imbarbarimenti delle libertà. È un po’ quello che Paolo cerca di fare con i cristiani di Corinto.
La vita spirituale non si chiama fuori dal mondo, ma nemmeno si omologa, è capacità critica che diventa impegno pedagogico, culturale…
L’uomo spirituale non si lascia ingannare dalle apparenze, dalle promesse, dai populismi e dalle demagogie.
La vita spirituale cammina con i piedi sul terreno della realtà, con l’orecchio attento al grido dei poveri, ma anche attento ai sofismi dei ricchi. Con gli occhi aperti ai processi della storia, ma anche all’orizzonte del regno.
A questo orizzonte del regno Gesù rimanda i suoi, la sua stessa Chiesa ed è la terza prospettiva che ci viene dal vangelo, dove l’obiettivo di Gesù non è fondare una Chiesa, ma di servire il regno di Dio. Non sarebbe veramente Chiesa di Gesù quella che non ponesse come lui la propria vita al servizio del regno come assoluto.
Essere chiesa, essere chiesa di Cristo per noi non può essere altra cosa che vivere e lottare per la causa di Gesù, per il regno di Dio, per trasformare questo mondo avvicinandolo all’utopia che Dio stesso vuole realizzare nella storia.
Una spiritualità che ha il regno come suo orizzonte sottopone a critica qualunque sistema sociale chiuso su se stesso, ma sottopone a critica anche la Chiesa stessa quando nelle sue strutture cede alla tentazione di autoreferenzialità negando la centralità del regno.
Non dovremmo mai dimenticare questo orizzonte, perché potrebbe accadere come diceva già Agostino, che Alcuni sembrano esser dentro (la Chiesa) mentre in realtà ne sono fuori; altri invece sembrano esserne fuori mentre in realtà sono dentro (De Bapt. V,37,38).
Ecco cosa fa una vita spirituale: anzitutto fa la scelta dei poveri, mette al centro gli scarti del mondo, poi si pone come anima critica del mondo per contestarlo nelle sue ingiustizie, infine è una vita spirituale che tiene fermo lo sguardo sul regno di Dio come fine ultimo e assoluto del proprio camminare, come una nave tiene la barra a dritta mentre naviga nelle burrasche del mare.
Invochiamo il dono dello Spirito Santo perché ci sia dato di essere uomini e donne spirituali.
(At 4,8-14; 1Cor 2, 12-16; Gv 14, 25-29)