I DOPO L’EPIFANIA - Battesimo del Signore - Mt 3, 13-17


Sarebbe già un successo se il Signore Dio potesse dire di noi al termine della nostra vita: Ecco un figlio che mi è piaciuto tanto per quello che ha fatto! Non pretendiamo che lo dica oggi, in questo momento, saremmo presuntuosi e poco veritieri, però sarebbe proprio bello se un giorno il Signore potesse dire così di noi.

Cosa dobbiamo fare perché questo accada? Fissiamo anche oggi il nostro sguardo su Gesù all’inizio della sua missione. Un inizio che Gesù interpreta e legge non solo come un passaggio di testimone, infatti all’obiezione del Battista che non vorrebbe immergerlo nel Giordano, Gesù risponde: Conviene che compiamo ogni giustizia!

Anzitutto il soggetto, prima persona plurale: che noi compiamo. Gesù e Giovanni insieme, la profezia antica e la nuova insieme compiono, danno pienezza, compimento, soddisfazione, raggiungono lo scopo… così che tutto quello che è stato detto e fatto finora e tutto quello che viene e verrà detto e fatto d’ora in avanti compia il disegno di Dio.

Cosa devono compiere insieme, Giovanni e Gesù? Ogni giustizia, la giustizia di Dio. Gesù sente che insieme a Giovanni dà pienezza alla giustizia del disegno di Dio, appunto la porta a compimento. Ma che cos’è la “giustizia” del disegno di Dio?

Il disegno di Dio ha messo nel cuore di ogni uomo e di ogni donna la capacità di amare, questo è vero per ogni cultura e per ogni religione al mondo, però noi siamo spesso ingiusti, non amiamo, non mandiamo avanti il mondo secondo il disegno di Dio. Gesù scende nel Giordano solidale con la nostra incapacità di amare, con la nostra sfiducia profonda nell’uomo per uscirne indicando la via, la strada per amare.

Di questo era simbolo il passaggio nel Giordano. Ora noi ricordiamo a fatica che il Giordano è qualcosa di più di un fiume che per 320 km scende dall’Ermon fino al Mar Morto: è la porta d’ingresso nella terra della libertà attraverso la quale è passato Giosuè. Il quale quando passa mette in scena tutta una coreografia per dire che il fiume non è semplicemente un confine naturale, ma nel suo essere il luogo più basso della terra, significa realmente il passaggio da una condizione di tristezza, di paura, di schiavitù a una condizione di libertà, di pienezza di vita, di gioia.

Cosa si aspettavano le persone che andavano a immergersi da Giovanni se non un cambiamento della loro incapacità di amare? Ecco la giustizia di Dio, si compia ogni giustizia, dice Matteo. A me piace tradure quell’ “ogni” con “una volta per tutte”, perché una volta per tutte si compie in Gesù la giustizia di Dio nel momento in cui scende con noi nelle nostre incapacità e ci fa risalire a nuove possibilità di amore e di gioia.

Gesù che si mette in fila per essere battezzato da Giovanni dice la solidarietà di Dio che si fa compagno di liberazione.

Gesù non si mette in alto, sulla cattedra a insegnare, a dettare legge, Gesù si fa solidale, compagno degli uomini e delle donne nel processo di liberazione dall’odio, dall’egoismo, dalla paura. Una volta per tutte. Tutta la sua vita sarà una continua immersione nell’umanità ferita, nell’umanità delusa e scartata, nell’umanità fallita.

Sorge spontanea la domanda: il nostro Battesimo che fine ha fatto? È rimasto un ricordo sbiadito nelle fotografie degli anni che furono oppure continua ad animare la nostra missione di cristiani?

Sappiamo che l’amore di Gesù è un amore che scende nei luoghi più bassi dell’umanità, nella condivisione con chi soffre, con chi fa fatica, con chi è schiacciato e oppresso dal senso di colpa… per risalire alla speranza, al dono di sé.

Così anche noi, come scrive Papa Francesco «Siamo chiamati a scoprire Cristo nei poveri, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro»[1].

Molto bella questa intuizione che fa dell’amicizia con i poveri un tratto della nostra capacità di essere chiesa.

Lo diceva anche al Convegno della Chiesa italiana di Firenze: «A tutta la chiesa italiana raccomando: l’inclusione sociale dei poveri che hanno un posto privilegiato nel popolo di Dio e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel vostro Paese, cercando il bene comune»[2].

La piena giustizia del disegno di Dio è nell’essere chiesa così, una chiesa di battezzati, preti e laici, vescovi e consacrate, celibi e sposati che sono amici dei poveri.

In realtà dobbiamo fare i conti con un immaginario fuorviante perché noi inconsciamente abbiamo in mente una chiesa già costituita, già fatta che “poi” si interessa dei poveri, degli ultimi e degli emarginati. Una chiesa che “prima” consiste in sé stessa e “poi”, in un secondo momento, si interessa degli ultimi.

A me sembra che il Signore faccia le cose diversamente: costituisce la sua comunità, la chiesa anzitutto intorno ai poveri, agli ultimi, ai disperati. La chiesa, la comunità dei discepoli e delle discepole del Signore si costituisce vivendo anzitutto la condivisione con i malati, con gli scartati, con i poveri.

La chiesa diventa sé stessa, casa aperta, luogo della compassione e della misericordia di Dio per la vita di ogni uomo, attraverso questa attitudine che è stata la prima cosa fatta da Gesù sceso nel Giordano a condividere le nostre miserie.

Spesso la carità viene intesa come un intervento successivo o posticcio all’essere chiesa, una toppa che ripara lacerazioni ed emarginazioni che si danno per scontate e inevitabili. E se invece di considerare l’amore come il corollario di una chiesa che è già data, imparassimo ad essere chiesa che si costituisce in questa discesa nel Giordano, che è poi la discesa del Samaritano, che è in definitiva anche la piena manifestazione/epifania della discesa di Gesù nel diventare umano?

Provo a immaginare quanto potrebbe diventare dirompente una chiesa così. Come potrebbe cambiare il linguaggio, il modo di pregare, come le liturgie anziché essere riti ingessati e induriti dalla sclerosi del tempo potrebbero dare voce al grido che sale dai nostri cuori e dai cuori di tanta parte dell’umanità?

Come cambierebbero i ministeri, i ruoli di servizio, di annuncio della fede! Come cambierebbe l’organizzazione stessa della Chiesa! Ad oggi viviamo strenuamente del modello tridentino: parrocchia, catechismo, sacramenti. Ma per 1500 anni la chiesa è stata anche altro, si è adattata e strutturata in base alle necessità delle persone. Se è vero come dice qualcuno che il cristianesimo cambia pelle ogni cinque secoli[3], allora il cammino iniziato nel Concilio Vaticano II avrebbe bisogno di un ulteriore impulso.

Io non so quale chiesa possiamo diventare, sicuramente stiamo vivendo un cambiamento d’epoca e nel cambiamento teniamo vivo l’indispensabile che ci viene dal Vangelo: la scelta non tanto di fare qualcosa per i poveri, ma di farsi povera così che la Chiesa si liberi da ogni surrogato di potere, di immagine e di denaro, perché la povertà evangelica è creativa, accoglie e sostiene, come ci è dato di conoscere dalla storia.

E poi, una chiesa che sappia dialogare, coltivi la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” dalla torta comune. Non è questo che conta. Ma dialogare è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, anche arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto ed è logico e prevedibile che sia così. Non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo.

Anzi ricordiamoci che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e di discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme… non da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà [4], a partire appunto dal battesimo e dalla parola secondo cui dove sono due o tre riuniti nel suo nome, Egli è in mezzo a loro (Mt 18,20).

«Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa, innovate con libertà»[5].

Sarebbe forse l’ora che la nostra Chiesa italiana si inquietasse un poco e si mettesse in discussione creando luoghi e tempi per un confronto di tutta la comunità, di tutto il popolo cristiano.

Condivido quanto scrive p. Sorge: Non ce n’è forse abbastanza per un Sinodo della Chiesa Italiana?[6]

Preghiamo lo Spirito Santo perché ci faccia uscire dalla palude e ci rimetta insieme in dialogo e soprattutto in ascolto di quello che lo Spirito va dicendo alle chiese, alla chiesa, a ciascuno di noi nella chiesa.

Quello Spirito che sceso su Gesù nel Giordano insieme alla voce del Padre lo confermò una volta per tutte nella sua missione di condivisione e di solidarietà amichevole con tutti gli uomini e tutte le donne, ecco quello Spirito chiediamo come dono per la missione del nostro essere chiesa al servizio del Vangelo.

(Mt 3,13-17)

[1] Evangelii gaudium, 198

[2] Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015

[3] La Lettura, Corriere della sera, 5 gennaio 2020

[4] Cf. Evangelii gaudium, 227

[5] Discorso al V Convegno nazionale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015

[6] Civiltà cattolica, Quaderno 4062, pp. 449-458, 21 settembre 2019