III DI AVVENTO - Mt 11, 2-11
(Is 35, 1-10; Gc 5, 7-10; Mt 11, 2-11)
Saper vedere una via santa che attraversa il deserto, poter credere che la terra arida e la steppa possano fiorire, immaginare che le situazioni di tutti noi che siamo qui e per le quali ci troviamo ad essere preoccupati: per qualcuno sarà la salute, per altri le relazioni, per altri ancora il lavoro … ecco credere che queste situazioni potranno cambiare, così come credere che un cieco possa vedere, uno zoppo possa mettersi a saltare come un cervo o un muto a cantare … Ecco tutto questo potremo dire si pone sul confine tra la fede e l’illusione. Dove arriva l’una e dove finisce l’altra?
Siamo noi a darci delle speranze per riuscire ad andare avanti e quindi abbiamo bisogno di costruirci nella nostra immaginazione un futuro improbabile? Siamo noi, e lo dico con le parole di Isaia, che ci inventiamo un sentiero, una via santa, laddove invece non c’è che la dura realtà di una landa arida e deserta? Come diceva il titolo di un libro di qualche anno fa: siamo noi che Crediamo di credere?
Quando Isaia, o meglio un profeta che prende il suo nome e che vive una condizione lontana almeno duecento anni dal primo Isaia, scrive questa pagina che viene chiamata l’inno alla gioia del Secondo Isaia, di Isaia 2, non agisce come un venditore di illusioni ad una popolazione che vive da deportata e schiava a Babilonia, non lavora di fantasia sognando un futuro virtuale.
Il profeta si rende conto leggendo con fede i sommovimenti della storia e scrutando oltre la cronaca nelle pieghe delle vicende che, con pazienza, si vanno verificando i segni di un cambiamento. Le due deportazioni del 597 e del 586 ad opera di Nabucodonosor erano state vissute come un fallimento, un duplice disastro. Ma Isaia 2 ha motivo di vedere la parabola di quel regno arrogante e violento che ha ridotto Israele a un deserto di speranze, a una steppa arida di fede. Al nadir di questa parabola discendente ecco sorgere una sottile speranza: è l’anno 553 Ciro re di Persia inizia le sue campagne vittoriose e questo fa ben sperare nella fine della deportazione in esilio.
Facciamo un salto di cinquecento anni e incontriamo Giovanni il Battezzatore, un giovane trentenne coetaneo di Gesù, rinchiuso in carcere per aver denunciato l’immoralità di Erode, anche se questi non aveva il coraggio di metterlo a morte perché il Battista aveva largo seguito. Sarà per una donna ancora che Erode perderà la testa, anche se farà tagliare quella del profeta.
È dalla prigione che emerge la domanda, la sofferta domanda del Battista: Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettarne un altro? E dobbiamo, anche solo per qualche istante, per comprendere l’angosciata domanda di Giovanni scendere anche noi con lui nel buio della prigione di Macheronte. Il profeta, quel libero spirito del deserto che gridava l’irrompere della giustizia di Dio sulla faccia della terra dove l’ingiustizia umana la fa da padrona, ora è ridotto all’impotenza, non può battezzare più nessuno e le sue parole rimangono soffocate dentro le pareti di una cella, represse dalla prepotenza di Erode.
Ma, come dice di lui Gesù, il Battista è una quercia, non è una banderuola o un opportunista che svende la sua dignità per denaro. Non è nemmeno un uomo di potere e di prestigio che possa contare su amici influenti o alleati che lo possano tirare fuori da lì.
Non è appunto questo che turba Giovanni, ciò che lo preoccupa e lo sconvolge di più è quel che gli viene riferito su Gesù di Nazareth.
« Sento dire dai miei discepoli che vengono a trovarmi, che tu Gesù di Nazareth vai insegnando qua e là, guarisci i lebbrosi che incontri e qualche malato o paralitico, scacci gli spiriti immondi, mangi e bevi con i pubblicani, ti circondi di un’accozzaglia eterogenea di discepoli, hai guarito anche il servo di un centurione romano, vai perdonando i peccatori… Ma come io ho dato fiato alle voci dei profeti, ho annunciato il tempo dell’ira di Dio, la cui scure è posta alla radice degli alberi infruttuosi, era previsto un fuoco purificatore … e invece sono ormai trascorsi diversi mesi e io sono in prigione e la scure si sta avvicinando al mio collo più che a quello dei malvagi! Sarebbe questa l’ora in cui Dio premia i giusti e punisce gli empi? Non sono sempre i deboli a pagare il caro prezzo dell’ingiustizia? ».
La domanda del Battista rivela la serietà del suo cammino interiore perché il Battista si interroga sulla verità della promessa di Dio, ciò per cui egli ha creduto e ciò per cui si è esposto. Se anche per un attimo andassimo dietro all’ipotesi di Giovanni che Gesù non sia colui che deve venire, la conseguenza sarebbe drammatica per lo stesso Battista che si troverebbe costretto a domandarsi: «Allora chi sono io?». Si troverebbe costretto suo malgrado a rimettere in questione la sua stessa vita, oltre quella di Dio. «Se l’immagine di Dio non è quella che avevo in mente io, allora chi sono io? Un illuso? Un visionario? Un esaltato fuori dal tempo e dalla storia?».
Questo sembra essere il pensiero di Giovanni che non è lontano dal nostro pensiero quando scendiamo nel buio della prova, della delusione, della sofferenza e del dolore e misuriamo la distanza tra Dio e l’idea di Dio che abbiamo noi. Ma come «Ho pregato il Signore e non mi ha ascoltato! Non ha fatto quello che gli ho chiesto!»?
Siamo anche noi un po’ come il Battista, impazienti e la conseguenza di questa delusione è di farci allontanare arrabbiati, disgustati e induriti nel cuore, al punto che qualcuno arriva anche a dire di non credere più in Dio. Ma in quale Dio non crede più? Meno male che non crede più nel Dio della sua immaginazione, delle sue aspettative e della sua impazienza!
È l’apostolo Giacomo che nella seconda lettura ci suggerisce l’atteggiamento necessario alla vita: siate costanti! Che è l’atteggiamento tipico e proprio dell’agricoltore e forse meno congeniale all’uomo tecnologico abituato alla rapidità dei microprocessori, all’immediatezza delle risposte, appunto la pazienza.
Forse a noi la pazienza appare come un atteggiamento passivo e perciò infruttuoso, a volte confuso con la rassegnazione. Probabilmente per questo la nuova traduzione della Scrittura parla di costanza, un termine che in greco si dice macrothymìa, ovvero “larghezza di sguardo”, capacità di una più ampia prospettiva. Ci vuole costanza, macrothymìa, perché talvolta vorremmo anche noi che la scure e il fuoco del Battista scendessero sugli altri, sulla società, sulla politica … mentre occorre una grandezza d’animo e uno sguardo in grande sulla realtà, su Dio, sulla chiesa e su noi stessi. Perché al di sopra di tutto la costanza è la forza nei confronti di se stessi, è la capacità di non lasciarci andare all’abbattimento, alla tristezza, alla disperazione per saper vedere, come Isaia, sentieri fioriti anche nel deserto.
Sarebbe ingannevole preparare un pranzo con la massima cura dei particolari e poi cucinarlo in cinque minuti pretendendo che sia subito cotto. Che è quello che noi spesso facciamo con la nostra vita. Facciamo le cose giuste ma non abbiamo pazienza – vogliamo subito i risultati, le consolazioni, i cambiamenti.
Il seme del Vangelo cresce lentamente dentro di noi: ci vuole una vita di pazienza.