III DI AVVENTO - Mt 11, 2-15


Ciascuno di noi proprio in rapporto alla fede, alla relazione con Dio, è più facilmente incline a cercare risposte. L’atteggiamento religioso in genere si concretizza proprio nella ricerca di sicurezze, di punti fermi, di certezze in una vita che tanto spesso ci sottopone a imprevisti, fatiche, dolori e sofferenze che irrompono quasi come un terremoto, come è accaduto per alcune famiglie e intere città in questi mesi.

L’irrompere di Gesù ormai adulto sulla scena della Palestina degli anni 30 per certi aspetti possiamo dire che non sia stato propriamente l’offerta di sicurezze e di certezze, anzi è stato un vero e proprio terremoto che ha suscitato molte domande intorno a sé.

Anzitutto perché Gesù non è che si sia inserito nella sua società e nel suo popolo con una fisionomia precisa, certa e rassicurante così come appare a noi oggi.

Noi abbiamo di Gesù un profilo abbastanza addomesticato, famigliare. Ma quando lui comincia a predicare, a girare per le strade e le città, ad attorniarsi di uomini e donne che lo seguono, non si presenta come un rabbi, o perlomeno non esercita alla stregua dei rabbi del suo tempo, tantomeno si presenta come un sacerdote del tempio, non partecipa neanche a un qualche movimento conservatore come potevano essere i sadducei, nemmeno lo si poteva iscrivere nelle fila di quei moderati che potevano essere i farisei, e ancor meno gli zeloti, i terroristi di allora potevano dire che fosse dei loro.

Dico questo perché la domanda che il Battista pone a Gesù, attraverso i suoi discepoli – in quanto lui è rinchiuso nelle celle di Macheronte – è la domanda sorpresa, interrogativa che nasconde una certa delusione, forse anche un poco di disappunto: Ma sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?

L’incontro con Cristo arriverà anche ad offrire delle certezze, delle sicurezze, ma fin da subito impone delle domande.

Nel nostro essere discepoli, nel vivere la Chiesa abbiamo bisogno di riscoprire la forza e la potenza delle domande, soprattutto nella vita di fede, nel cammino spirituale che viviamo, nella nostra storia con Dio, con la Chiesa, con gli altri.

Le domande ci fanno stare insieme, non come spettatori di un teatrino, non come «yes men» che dicono sempre «amen» senza passione e senza pensiero. Le domande mettono in moto una ricerca personale che cerca dialogo, confronto, condivisione.

E poi le domande permettono di non addomesticare il mistero di Dio, impediscono di ridurre l’Eterno a concetto, idea, quasi fosse un oggetto che noi possiamo spadroneggiare a piacere. È sempre un Dio di popolo, non solo dell’intimità e della vita spirituale personale. Tant’è che Gesù stesso pone altre domande alla gente che gli viene dietro: Cosa siete andati a vedere nel deserto? E insiste, Allora cosa siete andati a vedere?

E allora, anche solo qualche istante, scendiamo anche noi con Giovanni nel buio della prigione di Macheronte per comprendere la sua domanda.

Il profeta, il libero spirito del deserto che gridava l’irrompere della giustizia di Dio sulla faccia della terra dove l’ingiustizia umana la fa da padrona, ora è ridotto all’impotenza, non può battezzare più nessuno e le sue parole rimangono soffocate dentro le pareti di una cella, represse dalla prepotenza di Erode.

Ma, come dice Gesù, il Battista è una quercia, non è una banderuola o un opportunista che svende la sua dignità per denaro.

Non è nemmeno un uomo di potere e di prestigio che possa contare su amici influenti o alleati che lo possano tirare fuori da lì.

Non è appunto questo che turba Giovanni, ciò che lo preoccupa e lo sconvolge di più è quel che gli viene riferito su Gesù di Nazareth.

Provo a dare voce ai pensieri del Battista: «Sento dire dai miei discepoli che vengo­no a trovarmi, che tu Gesù di Nazareth vai insegnando qua e là, guarisci i lebbrosi che incontri e qualche malato o paralitico, scacci gli spiriti immondi, mangi e bevi con i pubblicani, ti circondi di un’accozzaglia eterogenea di discepoli, ti fai accompagnare da donne che non sono proprio di buona reputazione, hai guarito anche il servo di un centurio­ne romano, vai perdonando i peccatori…

Ma come io ho dato fiato alle voci dei profeti, ho annunciato il tempo dell’ira di Dio, la cui scure è posta alla radice degli alberi infruttuosi, era previsto un  fuoco purificatore… e invece sono ormai trascorsi diversi mesi e io sono in prigione e la scure si sta avvicinando al mio collo più che a quello dei malvagi!

Sarebbe questa l’ora in cui Dio premia i giusti e punisce gli empi? Non sono sempre i deboli a pagare il caro prezzo dell’ingiustizia?».

La domanda del Battista rivela la serietà del suo cammino interiore perché si interroga sulla verità della promessa di Dio, ciò per cui egli ha creduto e ciò per cui si è esposto.

Se anche per un attimo andassimo dietro all’ipotesi di Giovanni che Gesù non sia colui che deve venire, la conseguenza sarebbe drammatica per lo stesso Battista che si troverebbe costretto a domandarsi: «Allora chi sono io?». Si troverebbe costretto suo malgrado a rimettere in questione la sua stessa vita, oltre quella di Dio.

«Se l’immagine di Dio non è quella che avevo in mente io, allora chi sono io? Un illuso? Un visionario? Un esaltato fuori dal tempo e dalla storia?».

Questo sembra essere il pensiero di Giovanni che non è lontano dal nostro pensiero quando scendiamo nel buio della prova, della delusione, della sofferenza e del dolore e misuriamo la distanza tra Dio e l’idea di Dio che abbiamo noi. Come «Ho pregato il Signore e non mi ha ascoltato»?

Vorremmo il Dio delle risposte, delle nostre risposte, delle nostre attese. Così succede che quando rimangono deluse, molti si allontanano, al punto che qualcuno arriva anche a dire di non credere più in Dio!

Ma in quale Dio non crede più? Meno male che non crede più nel Dio della sua immaginazione, delle sue aspettative e della sua impazienza!

Gesù ci dona il Dio della speranza, non delle nostre attese. Attraverso questo processo maieutico, socratico, necessario per purificare le nostre attese, il Cristo ci libera dalla nostra stessa tirannia, dalla nostra schiavitù.

E’ un processo che attraversa tutta la Scrittura, perché forse ricordiamo come in Genesi le prime parole che Dio rivolge all’Adam dopo il peccato, sono una domanda: Dove sei? Così le prime parole a Caino dopo che ha ucciso Caino, sono una domanda: Dov’è Abele tuo fratello?

Noi da bravi moralisti, avremmo detto: Ma cos’hai fatto? Cos’hai combinato? Domande che ci inchiodano sempre nel senso di colpa. Non sono domande generatrici, capaci di rimettere in movimento il cuore e il pensiero. Dinnanzi all’umanità che sta andando come sta andando, Dio non ci inchioda alle colpe, ma chiedendoci dov’è tuo fratello? Ci sospinge a rigenerarci, a ripartire, a trovare strade nuove, sentieri aperti…

Come la gente al tempo del Secondo Isaia 500 anni prima del Battista. Dinnanzi all’ennesima prova della storia come la deportazione a Babilonia, la gente si lamenta e mette in discussione la fedeltà di Dio. Ma che cosa fa Dio? si dimentica di noi? Non mantiene la sua parola?

Il profeta sa vedere una via santa che attraversa il deserto, mantiene ferma la convinzione che la terra arida e la steppa torneranno a fiorire… perché Dio non viene meno alla sua parola. Certo il profeta non distribuisce illusioni, perché il deserto è comunque da attraversare, ma anziché porre domande a Dio, invita la sua gente a lasciarsi interrogare dalle domande di Dio, di un Dio che nella sua Parola continuamente ci interpella, ci fa pensare, ci mette in discussione.

Michelangelo diceva che le sue sculture non nascevano da un processo d’invenzione, ma di liberazione. Guardava la pietra grezza, completamente grezza e riusciva a vedere l’opera d’arte che poteva diventare. Per questo, descrivendo il suo mestiere, Michelangelo spiegava: Quello che faccio è liberare.

Così è nella nostra vita, senza il Dio della speranza, vediamo solo pietre intorno a noi, vediamo solo ostacoli senza fine e senza soluzioni. Nelle cose più piccole così come nelle più grandi possiamo invece ascoltare le domande iscritte nella vita, così succede che il marmo, la pietra liberano un capolavoro, come il seme che per germogliare ha bisogno della mano che lo lancia più lontano. La barca ha bisogno di chi le dia la spinta sufficiente per abbandonare la secca. Il foglio bianco ha bisogno di chi osi raccontare una storia.

(Is 35, 1-10; Rm 11,25-36; Mt 11, 2-15)