PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA detta "della divina clemenza" - Mc 2, 13-17
(Dn 9, 15-19; 1Tm 1,12-17; Mc 2, 13-17)
Se solo riuscissimo a liberare il pensiero e il nostro cuore dalla precomprensione che abbiamo di questo racconto evangelico e potessimo avere quella libertà necessaria per lasciarci raggiungere dall’inedita novità di Gesù, sono convinto che questa pagina ancora oggi potrebbe scandalizzarci, così come fu di scandalo allora.
Levi è un pubblico peccatore, da qui il nostro neologismo «pubblicano», perché è sotto gli occhi di tutti la sua condotta disonesta al punto che da uno come lui non si poteva ricevere nemmeno l’elemosina. Da quelle mani usciva denaro sporco, sporco per due motivi: anzitutto perché sulle tasse ci metteva la sua percentuale non sempre onesta e equa e poi perché riscuoteva denaro a nome e per conto dell’imperatore romano. Ma si sa, «pecunia non olet» diceva Vespasiano al figlio Tito, e il mondo da questo punto di vista non sembra essere cambiato di molto.
Siamo a Cafarnao, allora città di confine, dove il passaggio di persone e di merci assicurava un buon flusso di denaro, tant’è che forse erano più i pubblicani, gli esattori delle tasse che non i pescatori – dai quali Gesù aveva tra l’altro chiamato i primi discepoli-, infatti annota Marco: erano molti i peccatori e i pubblicani che lo seguivano. Appunto perché si sapeva che erano peccatori, sorprende l’atteggiamento di Gesù che rivolge lo sguardo su Levi e lo chiama a diventare suo discepolo. Se solo avesse visto il suo curriculum! Invece lo chiama senza nemmeno chiedergli di dare prova di sé, delle sue abilità e capacità … ma nemmeno del suo pentimento. Gesù chiama Levi Matteo senza bandire un “concorso per discepoli”, un concorso lo vince chi è più meritevole, ma lo chiama e lo avvolge con una misericordia che fa germogliare in quell’uomo una prospettiva nuova, un modo diverso di guardare la vita, proprio lui che era abituato a guardare se stesso e gli altri nell’ottica del «quanto posso guadagnare».
Gesù chiamando quest’uomo alla sequela non compie solo un gesto straordinario nei confronti di Levi, ma disturba e rompe i modelli sociali e religiosi, supera quei criteri che governano le convenzioni sociali per cui se uno è pubblicano morirà pubblicano, se uno è ladro morirà delinquente … e se uno è religioso morirà bigotto. Non è vero, dice il Signore, non è così.
Il testo evangelico non indugia nell’indagare la psicologia di Levi, non lo fa e noi non sappiamo se era un uomo sincero, uno di quelli buoni dentro il gruppo degli esattori. Perché anche se fosse stato il più buono degli esattori, era un esattore e come tale era out, fuori corso, il suo destino era segnato. E con tutti i certificati religiosi del caso.
Non finirei mai di contemplare la libertà di Gesù nel fermarsi davanti a lui, così come farà con Zaccheo – un altro della stessa risma – non per commentare o per codificare il suo comportamento, questo fanno gli scribi di ogni tempo e di tutte le religioni, ma per dirgli: «Ho bisogno di te! Dio ha bisogno di te, ha bisogno di Levi e non dell’esattore pubblicano».
Non gli dice: «Guarda che devi fare il bravo, io ti perdono, ma tu cambia vita», che sarebbero le premesse legittime per ottenere un minimo di garanzia sul futuro discepolo. Invece no, niente di tutto questo e gli chiede, anzi, gli intima: «Seguimi»!
Con questo Gesù dice che non c’è nessuno così lontano da Dio, che Dio stesso non lo possa raggiungere. I clericali – e alcune volte certi laici sono più clericali dei preti – sono lì a misurare chi è dei nostri e chi no, a prendere le misure per capire quanto uno è distante da Dio … ma, notate, misurano sempre la distanza degli altri. Per quanto uno possa essere lontano dalla fede e da Dio, l’Eterno però non è distante da nessuno. Al punto che anche un pubblicano, anche un ladro, un assassino, uno violento … può diventare discepolo, perché è la chiamata che trasforma! Il male è male, e il peccato va chiamato col proprio nome, è fuor di dubbio, ma l’incontro con Dio dischiude infinte possibilità di vita, di bene.
In principio c’è l’assoluta e libera iniziativa di Dio. Il discepolo non sceglie il maestro: il discepolo è chiamato, è scelto. Ma non perché è più bravo degli altri, o perché ha i numeri e le capacità, perché ha una vita più santa … è chiamato. Punto. è la parola che cambia la vita: Seguimi. Stai dietro a me. Il verbo del discepolo non è imparare, ma seguire.
Questo fa la differenza tra la figura del discepolo e gli uomini religiosi di ogni tempo: l’uomo religioso e la donna religiosa fanno delle cose per Dio, si preoccupano di accumulare meriti davanti all’Eterno, cercano di comprarsi la sua benevolenza, così facevano allora gli scribi e i farisei … ed erano più preoccupati delle loro organizzazioni che del regno di Dio, più preoccupati delle loro strutture che della misericordia, del loro potere più che della volontà di Dio.
Chiamando Levi il Signore non gli domanda di diventare un uomo religioso e praticante: il Signore non cerca schiavi tristi e infelici che fanno per lui pratiche noiose, è affascinato da chi è più lontano, da chi noi pensiamo sia più lontano, perché grazie a loro smettiamo di sentirci i padroni della fede, del vangelo.
E, infine, mi piace ricordare questa tavola improbabile intorno alla quale i discepoli sono seduti insieme ai peccatori di Cafarnao. Forse noi dimentichiamo che tra di loro si conoscevano bene: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni erano pescatori di Cafarnao e chissà quante volte avranno maledetto Levi Matteo al quale dovevano pagare la tassa sul pescato! E adesso sono a tavola insieme. È un miracolo che solo Gesù può realizzare.
In genere succede che noi mangiamo con quelli con cui siamo sintonizzati, con coloro che appartengono al nostro microcosmo. Con quelli nei quali ci riconosciamo. La commensalità e le sue barriere strutturano la rappresentazione del mondo e permettono una vita sociale coerente, dove c’è chi è dentro e chi è fuori. E questi paletti sembrano assicurare la stabilità della convivenza.
Mentre osserviamo questa tavola improbabile alla quale i discepoli sono seduti insieme ai pubblicani e ai peccatori, Marco ci ricorda che non c’è molta differenza tra gli uni e gli altri. E la conferma l’abbiamo nell’ultima cena, quando Pietro e Levi Matteo sono seduti ancora insieme. Pietro il peccatore pronto a rinnegare Gesù, e Levi Matteo, il discepolo fedele. La cosa che li unisce e che più conta è che tutti sono stati chiamati da Gesù. Ciò che permette la comunione con il Signore, che è venuto a chiamare non dei giusti ma dei peccatori, è allora il riconoscimento della nostra radicale indegnità.
Anche noi che da una vita seguiamo il Signore e cerchiamo di stare dietro a lui, dobbiamo riconoscere che il nostro cammino non è mai stato lineare, non è stato mai un tragitto chiaro e pulito, ben definito: ma è stato un po’ come il cammino dei discepoli nel Vangelo. Ed è anche per questa nostra condizione che forse siamo qui oggi intorno alla tavola dell’eucaristia, perché il Signore vuole che ci rialziamo, caso mai ne avessimo bisogno dal banco delle nostre imposte al quale siamo tornati volentieri, per rimetterci dietro a lui, consapevoli con Paolo che Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io.
Sì, Signore, noi siamo malati di potere, di egocentrismo, di protagonismo, siamo pigri e capricciosi, non siamo buoni. Siamo capaci di grandi slanci, ma anche di ferire e di fare del male: vogliamo seguirti, ma subiamo il fascino di tornare a sederci. Rialzaci con la tua misericordia!