PENULTIMA DOPO L’EPIFANIA detta "della divina clemenza" - Mc 2, 13-17


Che cosa ha in mente Gesù nel farsi degli amici tra persone così discutibili e affatto raccomandabili? Sapeva benissimo andando a Cafarnao che tipo di gente avrebbe incontrato.

Cafarnao era un villaggio di frontiera collocato sulla famosa via maris, provvisto di dogana (Mc 2,13-15), teneva relazioni commerciali con l’alta Galilea, il Golan, la Siria, la Fenicia, l’Asia Minore, Cipro e l’Africa, come risulta dalle monete e dalla ceramica importate da quelle regioni…

Scorrevano fiumi di denaro in quella città, tant’è che possiamo immaginare fossero più numerosi i pubblicani, gli esattori delle tasse che non i pescatori – dai quali Gesù aveva tra l’altro chiamato i primi discepoli- infatti annota Marco: erano molti i peccatori e i pubblicani che lo seguivano.

Levi Matteo è uno di questi, è un pubblico peccatore, da qui il nostro neologismo «pubblicano», perché la sua condotta disonesta è sotto gli occhi di tutti al punto che da uno come lui non si poteva ricevere nemmeno l’elemosina. Per quelle mani passava denaro sporco, sporco due volte: anzitutto perché sulle tasse ci caricava la sua esosa percentuale e poi perché riscuoteva denaro a nome e per conto dell’imperatore romano… Ma si sa «pecunia non olet» diceva Vespasiano al figlio Tito, e il mondo da questo punto di vista non sembra essere molto cambiato.

Sorprende tantissimo dunque che Gesù punti su uno di questa risma. Passi il fatto che chiamasse dei pescatori e non dei dottori di teologia, e nemmeno degli scribi… ma addirittura un pubblico peccatore. Se solo avesse visto il suo curriculum. Invece lo chiama senza chiedergli di dare prova di sé, delle sue abilità e capacità … e non gli chiede nemmeno se si sia pentito per quanto ha rubato!

Gesù chiama Levi Matteo senza bandire un “concorso per discepoli”. Un concorso lo vince chi è più meritevole, invece il Signore lo guarda e dischiude per quell’uomo una prospettiva nuova, proprio lui che era abituato a guardare sé stesso e gli altri nell’ottica del «quanto posso guadagnare», «come riesco a imbrogliare meglio la gente».

Gesù chiamando quest’uomo alla sequela non compie solo un gesto straordinario nei suoi confronti, ma compie un’operazione che scardina i modelli sociali e religiosi e supera quelle convenzioni sociali per cui se uno è pubblicano morirà pubblicano, se uno è ladro morirà delinquente … e se uno è religioso morirà bigotto. Non è vero, dice il Signore, non è detto che debba essere sempre così.

Non finiremo mai di contemplare la libertà del Signore nel fermarsi davanti a lui, così come farà con Zaccheo – un altro della stessa risma – non per stigmatizzare e condannare il suo comportamento, questo fanno i moralisti di ogni tempo e di tutte le religioni, ma per dirgli: «Ho bisogno di te! Dio ha bisogno di te, ha bisogno di Levi Matteo e non dell’esattore».

Non gli dice: «Guarda che devi fare il bravo, io ti perdono, ma tu cambia vita», premesse legittime per ottenere un minimo di garanzia sulla tenuta del futuro discepolo. Qui non si tratta di premesse, il cambiamento di vita non è la condizione per seguire Gesù, ma la risposta che darà Matteo dopo aver incontrato e accolto la misericordia di Dio.

Misericordia che Gesù gli usa per dire che non c’è nessuno così lontano da Dio che Dio stesso non lo possa raggiungere.

Quante persone oggi dicono di non credere in Dio. A loro possiamo però dire che Dio crede in loro. Per quanto uno possa essere lontano dalla fede e da Dio, l’Eterno però non è distante da nessuno.

Il male è male e il peccato va chiamato col proprio nome, è fuor di dubbio, se uno ruba, commette un reato e un peccato, ma l’incontro con Dio dischiude infinte possibilità di vita e di cambiamento.

Un cambiamento che è possibile perché in principio c’è l’assoluta e libera iniziativa di Dio. Il discepolo non sceglie il maestro: il discepolo è chiamato, è scelto. Ma non perché è più bravo degli altri, o perché ha i numeri e le capacità, perché ha una vita più santa… è chiamato. Punto. La parola che cambia la vita è: Seguimi. Stai dietro a me. La vocazione è seguire Gesù.

Facciamo attenzione però che Gesù non chiama Levi Matteo a fare il prete o il monaco. Noi siamo cresciuti con questa convinzione che la vocazione sia quella del prete, della consacrata, del monaco o della monaca… non solo, ma siamo abituati a pensare che la vocazione sia una questione strettamente personale, individuale, una scelta, quasi un diritto del soggetto.

Non diciamo forse che quel giovane ‘ha la vocazione’? o che ‘si è fatto prete’? Ma la chiamata è a seguire Gesù a vivere il Vangelo lì dove ti trovi e nel contesto in cui vivi. Altra cosa è il ministero nella chiesa, il servizio alla comunità.

Abbiamo operato un corto circuito facendo coincidere la chiamata a seguire Gesù con il ministero, con il servizio che si fa nella chiesa. Perché da 1400 anni continuiamo a chiamare ‘sacerdoti’ coloro che sono ministri, senza che ci sia nessun testo fondativo in tal senso? Il sacerdozio, che è una cosa molto seria, si è di fatto identificato in alcune persone, la casta sacerdotale, quando in realtà è una condizione che riguarda tutto il popolo dei battezzati in Cristo, l’unico sacerdote.

Nel primo millennio nessuno osava dire: Ho la vocazione, mi sento chiamato a fare il prete… uno sceglieva di vivere il Vangelo, di seguire Gesù. Era la comunità che sceglieva il presbitero, era la comunità che eleggeva il vescovo. Ne sappiamo qualcosa a Milano, basti ricordare s. Ambrogio che venne acclamato dal popolo come vescovo, lui che non era nemmeno battezzato!

Ed era prassi diffusa che la comunità esprimesse il desiderio di avere un certo cristiano come loro pastore. Sentite come Agostino racconta la propria ordinazione: Ero venuto a visitare un amico a Ippona, in tutta tranquillità di spirito… mi legarono, mi spinsero davanti all’altare e su richiesta del popolo che gridava fui fatto prete e più tardi vescovo[1].

Nessuno osava dire: voglio fare il prete, voglio fare il vescovo… anzi si veniva cooptati talvolta per forza.

Torniamo ora affacciarci sulla sala da pranzo in casa di Levi Matteo per osservare questa tavola improbabile intorno alla quale i discepoli sono seduti insieme ai più grandi peccatori di Cafarnao.  Immaginiamo l’imbarazzo perché tra di loro si conoscevano bene: Pietro e Andrea, Giacomo e Giovanni erano pescatori di quel villaggio e chissà quante volte avranno sparlato di Levi Matteo al quale dovevano pagare la tassa sul pescato! E adesso si ritrovano a tavola insieme… tutta colpa di Gesù! Non deve essere stato facile stargli dietro, come in queste circostanze.

Gesù è uno che mette insieme ciò che la società facilmente divide. Gesù è capace di mettere uno di fronte all’altro lo scriba e il pubblicano, l’apostolo e il fariseo. Osserviamo bene questa tavola improbabile alla quale i discepoli sono seduti insieme ai pubblicani e ai peccatori, e pensiamo all’ultima cena, quando Pietro e Matteo saranno seduti ancora uno vicino all’altro intorno a colui che un giorno li ha chiamati a seguirlo: Pietro la roccia di lì a poche ore con grande vergogna sarà pronto a rinnegare Gesù e Matteo che come gli altri davanti alla croce si dilegua …

Altro che ministero sacro! Non dovremmo mai dimenticare ciò che siamo e di che pasta siamo fatti: non siamo migliori degli altri, non abbiamo più meriti di altri. Siamo tutti un poco malati, siamo tutti peccatori e non è questione di diagnosi: ognuno di noi che ha il coraggio di accendere una luce dentro di sé, scopre di essere indegno, perché sia chiara la grandezza del cuore di Dio rivelata da Gesù, consapevoli con Paolo che Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io.

Realtà da non dimenticare, mai.

(1Tm 1,12-17; Mc 2, 13-17)

[1] Sermone 355,1,2