V DI AVVENTO - Gv 3, 23-32a


Ci sembra quasi di vedere i discepoli del Battista andare a spiare quello che fa Gesù per poi tornare dal loro capo a dirgli: “Guarda Giovanni che «quello là» – notate non nominano mai Gesù – quello che prima era con te e al quale hai dato testimonianza, ebbene «quello là» sta facendo più seguaci di te «tutti accorrono a lui!»”.

In poche battute, in pochi versetti registriamo una serie di atteggiamenti umani che ritroviamo nelle nostre giornate e nelle nostre relazioni. Infatti chi non ha mai avvertito quell’irrefrenabile bisogno di controllare cosa fa l’altro o l’altra? Facendo finta di niente cerchiamo di non perdere il controllo della situazione, il tutto nell’intento di far andare le cose in un certo modo, come interessa a noi…

Non ci aspetteremmo sentimenti tali da questi discepoli che hanno deciso di seguire il ruvido predicatore del deserto che parlava di conversione! Invece eccoli qui, alla distanza, a riproporre le stesse logiche di sempre, e andare dal Battista a dirgli: Ma guarda che ingrato quello là, prima ti ha sfruttato e adesso ti porta via la gente

Perché queste cose? Cosa li muove dentro? Guardate che stiamo parlando di noi, sono i nostri sentimenti che muovono le gambe e la bocca, e non dico niente di nuovo, ma se avessero avuto la sincerità di ascoltarsi, di interrogarsi forse avrebbero agito diversamente. Se si fossero chiesti: perché siamo invidiosi di Gesù? Perché lo vediamo come un competitor? Perché parliamo degli altri vedendo sempre quello che non va? Perché siamo sempre così critici nei confronti di quello che fanno gli altri?

Ecco se avessero avuto il coraggio di ascoltarsi e di guardarsi dentro, probabilmente si sarebbero resi conto che il loro perbenismo religioso era una patina superficiale e la loro conversione era ancora di là da venire. Invece abbiamo visto come i sentimenti muovono velocemente le gambe e la lingua!

Ebbene, fin qui niente di straordinario: è una pagina di ordinaria umanità.

Giovanni Battista cosa poteva fare? Ripercorriamo i possibili atteggiamenti, quelli che umanamente potremmo immaginare, nel senso che Giovanni poteva sfruttare questa situazione di presunta rivalità, ed è l’atteggiamento più diffuso anche da parte nostra, perché non c’è come avere un fronte comune contro qualcuno, avere un nemico comune per consolidare lo spirito di corpo, si sa che un nemico esterno favorisce una coesione interna maggiore del gruppo. Quindi Giovanni in qualche modo poteva volgere la questione a suo favore.

Oppure ci saremmo potuti aspettare da lui, per quello che ci dicono i Vangeli, una bella predica: poteva anche sferzarli con una sfuriata e tuonare come lui sapeva fare per buttare loro in faccia tutti i loro difetti perché «certe cose non si dicono, non si fanno»! Avrebbe usato così il senso di colpa per tenerli soggiogati: i seguaci devono temere il capo e questa sarebbe stata un’occasione preziosa.

Invece il Battista percorre una terza via, che non potevamo prevedere e che solo la divina follia di quel giovane profeta poteva introdurre, ed è quella di vedere le cose in modo diverso, per cui esordisce dicendo: Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data da Dio, dal cielo, e conclude: Ora la mia gioia è piena. Lui deve crescere e io invece diminuire.

Sono le ultime parole del Battista nel vangelo di Giovanni e sono come una consegna, una consegna anche per noi.

Giovanni è un giovane trentenne, allora un trentenne era considerato adulto, ma era prematuro che un profeta così giovane pensasse di passare il testimone: personalmente parlando, poteva avere ancora davanti un futuro promettente, senza pensare ai numerosi discepoli che lo seguivano e al grande successo tra il popolo.

Giovanni anzitutto legge le cose da una prospettiva altra, che potremmo dire teologica: Nessuno può prendersi qualcosa se non gli è stata data da Dio.

Già questa prospettiva sorprende i discepoli di allora e anche noi che siamo qui: guardiamo agli altri come dono di Dio? Sappiamo vedere nelle persone che amiamo, con cui lavoriamo, con cui facciamo delle cose insieme, come un dono o sappiamo invece vedere solo gli errori, gli sbagli che inevitabilmente sono capaci di compiere? È questo un punto critico del nostro modo comune di vivere perché viene spontaneo e immediato pensare che l’altro sia un antagonista, un nemico, un competitor da combattere, più che un dono di Dio. Anzi, non pensarla così verrebbe giudicata un’imperdonabile ingenuità.

Ma è il modo in cui anche noi possiamo stare nelle nostre relazioni evitando quei cortocircuiti di invidie, gelosie, sospetti e possessività… che tanto avvelenano i nostri rapporti e saper vedere invece il dono di Dio.

Il salmo 145 ci ricorda cosa fa e chi è Dio, elencando i dodici attributi dell’Eterno. Peccato che hanno omesso il primo che dice appunto che «il Signore ha fatto cielo e terra», per poi continuare con i versetti: «il Signore rimane fedele per sempre, rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati… ridona la vista ai ciechi, rialza chi è caduto…», questi dodici attributi di Dio sono il ritratto dell’amore divino nei confronti della povertà umana.

Il salmo ci ricorda che noi tutti cadiamo, sbagliamo, siamo un poco ciechi, un poco affamati di giustizia, siamo oppressi… siamo pellegrini e forestieri… e Dio appunto cosa fa? Si prende cura di noi, di ciascuno di noi. E questo è ciò che ci ricorda anche il Battista: siamo tutti dono della cura di Dio.

Questa consapevolezza lo induce a dare di sé una definizione curiosa: Io sono l’amico dello sposo, che possiamo comprendere riandando alle consuetudini ebraiche per le quali l’amico dello sposo era colui che curava personalmente la preparazione delle nozze e della festa. I particolari del ricevimento, dei festeggiamenti erano affidati a una persona di fiducia, all’amico intimo dello sposo ed era una gran bella responsabilità.

Giovanni vedendo arrivare Gesù, intravvede l’irrompere del regno di Dio, ed è per questo che indirizza lo sguardo dei suoi discepoli dicendo: Io sono solo l’amico, lo sposo è lui. Israele sapeva che Dio, come avevano detto i profeti, avrebbe preso in sposa il popolo di Israele nonostante tutte le sue infedeltà, e noi subito traduciamo: allora adesso la chiesa è la sposa di Cristo!

Dobbiamo riconoscere che solo una lettura sbrigativa ci farebbe dire che la sposa è la Chiesa, la comunità cristiana che sperimenta l’amore di Gesù, che si sente amata da lui di un amore fedele e saldo.

Questo è vero in parte, ma non possiamo semplicemente identificare la chiesa con la sposa. La chiesa è chiamata a svolgere il ruolo di Giovanni: è l’amica dello sposo che è Gesù il quale non è venuto per alcuni, fossero anche i più santi e i migliori … ma è venuto per i peccatori, per i malati, per tutta l’umanità.

La missione di Gesù è per un mondo nuovo, migliore, salvato da lui. Pensate quale responsabilità ci viene affidata: essere gli amici di Gesù che devono avere a cuore che l’umanità, anche la più sgangherata e rovinata, possa sperimentare l’amore dello Sposo.

Per questo, anche noi come Giovanni, anche la Chiesa come Giovanni, dovrebbe ripetere a se stessa: La mia gioia è piena. Lui deve crescere e io diminuire!

Gesù cerca amici che possano essere lo strumento per dire il suo amore a tutti gli uomini. Mentre ancora oggi succede che, come ai tempi del Battista, i discepoli stiano a litigare se quello che fa uno non sia migliore di quello che fa l’altro… «il mio gruppo, la mia parrocchia è migliore della tua…, il mio movimento è migliore del tuo…».

Quando la missione degli amici dello sposo è quella di preparare la sposa, che è l’umanità, alla festa di nozze con il Signore.

Sapete da cosa comprendiamo se siamo sulla strada giusta? Se siamo contenti come il Battista. Quali sono i sentimenti che prevalgono in noi? Siamo capaci di gioire oppure siamo invidiosi, gelosi e sospettosi del bene degli altri?

O ancora facciamo dipendere la nostra gioia da innumerevoli condizioni: se le cose vanno così, se le situazioni sono in quel modo, se gli affari vanno come dico io…  oppure, come diceva il salmo 145, cerchiamo di compiere le opere di Dio, che sono appunto dare il pane agli affamati, liberare i prigionieri, rialzare chi cade, proteggere i forestieri, sostenere l’orfano e la vedova?

Con i dodici attributi di Dio siamo alle origini delle cosiddette opere di misericordia: sono quelle azioni che ci consentono, come amici del Signore, di contribuire ad un’umanità più vivibile e più amabile.

 

(Is 30, 18-26b; 2Cor 4, 1-6; Gv 3, 23-32a)