BATTESIMO DEL SIGNORE - Mt 3, 13-17


(Is 42, 1-4.6-7; Mt 3, 13-17)

Dalla contemplazione di Gesù appena nato a Betlemme, piccolo e fragile come ogni neonato, la liturgia ci fa posare lo sguardo sul Signore che, dopo trent’anni di silenzio, appare nella vita pubblica della Palestina e precisamente sulle rive del Giordano a domandare il battesimo dal Battista.

L’iconografia classica ce lo raffigura da solo di fronte a Giovanni, ma dovremmo più precisamente pensarlo in fila con tutti gli altri, in mezzo a gente che aveva di che convertirsi e chiedere perdono a Dio.

Un inizio così è sorprendente: ci saremmo aspettati una discesa in campo con effetti speciali, un discorso programmatico, dei gesti eclatanti … Per capire come Gesù sia arrivato a questa decisione dovremmo ripercorrere quei trent’anni da lui trascorsi nella più totale normalità, a imparare a leggere e a scrivere, ad apprendere un lavoro, a crescere come uomo, a condividere le gioie e le fatiche della vita. Sono anni preziosi e non solo da considerare come nascondimento e preparazione alla missione, ma come anni di vita vera, profondamente umana … se dimentichiamo questi anni non possiamo capire quello che accade al Giordano e tantomeno comprendere perché la voce dell’Eterno dica su quest’uomo che esce dall’acqua: «Questi è mio figlio l’amato. Mi piace proprio»!

Nazaret è la vita di Gesù, non semplicemente la sua prefazione (Sequeri). Sono anni in cui la vita di Gesù, figlio di Dio, passa inosservata, nella piena condivisione di un’umanità perduta e sperduta, irriconoscibile e dimenticata come è quella di gran parte di noi.

Gesù non fugge dal mondo: troppe volte si è frainteso sulla fuga dal mondo che i vangeli intendono come fuga dal peccato, ma non dall’umanità. Perché tale è il continuo abbassamento di Gesù nell’accettare la normalità di condizioni che sono semplicemente umane e non artificiosamente cercate e ricostruite come religiose.

L’Eterno riconoscendo in questo modo di fare di Gesù l’identità del Figlio amato, indica nell’insediamento in quelle condizioni, semplici e nascoste, la comunione di Dio con l’umanità dell’uomo, il senso di una redenzione che annulla ogni pregiudiziale distanza mediante l’incarnazione.

Se noi chiediamo ai nostri figli: cosa vuoi diventare da grande? Ci risponderanno ovviamente immaginando di puntare verso qualcosa che è considerato grande, che sta in alto nella gerarchia delle preferenze sociali. Così se ieri ci dicevano: farò l’ingegnere, il medico o l’avvocato … Oggi ci diranno: voglio fare l’attore, il calciatore, la velina …

Ma nostra madre e nostro padre non ci ha messo al mondo per fare l’attore o per fare la velina … – con tutto il rispetto perché tutte le professioni sono importanti-, perché la questione non è tanto il mestiere che facciamo, il ruolo che abbiamo, ma la domanda più vera è: quale modello di uomo, quale ideale di persona portiamo dentro di noi e vogliamo essere?

Sulle rive del Giordano Gesù si presenta come uomo solidale con tutta l’umanità bisognosa di salvezza e l’Eterno gli dà l’investitura del re messia, ma non alla maniera dei re che si separano dai sudditi, bensì come un servo che non griderà, né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà la canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta …  (Is 42, 1-4).

Cioè non farà tutte quelle cose che erano invece prerogativa dei re babilonesi che avevano potere di vita e di morte sui sudditi. Dio non viene a fare questo per nessuno di noi. Il servo del Signore non viene per condannare, ma mettendosi in fila con i peccatori, indica a tutti una possibilità, una speranza perché tutti siamo figli amati dal Padre.

Dobbiamo riconoscere che non sempre ci è così evidente e chiara la consapevolezza di essere figli amati da Dio: prove, sofferenze, incomprensioni … molte volte ci troviamo nelle condizioni di pensare che Dio si sia distratto o peggio ancora si sia dimenticato di noi!

Dovremmo piuttosto riconoscere che siamo noi a dimenticare di essere figli come Gesù è stato figlio. Gesù è figlio di Dio, ma non secondo la nostra idea di figlio, non secondo le nostre aspettative, ma per quello che ha significato per Gesù essere figlio. Essere amati da Dio, figli amati, non significa sentirsi messi in alto, ma venire immersi, scendere giù nel mezzo dei bisogni e delle speranze degli altri uomini e delle altre donne di ogni parte del mondo fidandosi di Dio.

Questa è la comprensione della dignità cristiana che consegue il battesimo, una volta che liberiamo il battesimo da quella cornice sacrale e magica in cui spesso sconfina la mentalità religiosa e lo restituiamo a quella voce dello Spirito che fa’ di noi i figli amati.

E con Gesù si inaugura così davvero una nuova stagione per la storia del mondo. Infatti Matteo tiene a sottolineare che lo Spirito di Dio scende come una colomba su Gesù quando sale dall’acqua. L’uomo biblico sa che la colomba è un uccello migratorio che parte in autunno e ritorna all’inizio dell’estate. L’arrivo della colomba coincide con la fine della stagione delle piogge e l’inizio della bella stagione. Anche la colomba che reca a Noè un ramoscello di ulivo dopo il diluvio annuncia una nuova stagione per l’umanità.

Il modo di essere uomo di Gesù, uomo solidale che si fa viandante assetato al pozzo di Sicar dove incontra la samaritana, si fa pellegrino sulla strada di Emmaus dove incontra i due pellegrini; frequenta la tavola dei pubblicani e dei peccatori … tutto questo fa pensare che il vangelo ha visto nello Spirito che scende su Gesù sotto forma di colomba l’annuncio di una nuova primavera, di una nuova stagione della storia della salvezza, perché con Gesù è arrivato il regno dei cieli, il regno di Dio.

Nel tempo in cui trionfa il narcisismo, l’esaltazione dell’io, un tuffo (un’immersione!) in questa spiritualità può dare inizio a una nuova rinascita. La forte personalità non è quella che si impone con la sua forza e magari con la sua prepotenza, ma quella che segue la via del Cristo, che è poi la concezione cristiana della persona, che è chiamata ad essere relazione, dono, gratuità, umiltà, abbassamento, ‘kenosi’.

E lì, sorprenderci ad essere figli dello stesso Padre e fratelli nell’unica famiglia umana.