II DOPO L’EPIFANIA - Gv 2, 1-11
Mi sembra di percepire nell’aria di questo nostro tempo così incerto, imprevedibile e a tratti sconcertante, la sete di qualcosa di nuovo, di genuino, di vero, bello, talmente necessario che non può che essere accessibile a tutti.
Lo colgo a tratti nelle vite dei ragazzi e dei giovani che mi guardano e mi scrutano come per cogliere se credo davvero a quello che dico e in quello che faccio… e li vedo ponderare se sia mai possibile un futuro diverso.
Lo scruto nelle vite discrete e silenziose di tanti che si spendono nella propria vita professionale con passione e intelligenza, e vivono con sobrietà e semplicità, che è una forma di resistenza per non arrendersi alla cultura del mercato, cultura in cui tutto si compra e si vende, dai senatori alle minorenni…
Lo respiro in quelle persone che sono ai margini, quelle donne e quegli uomini che sono tagliati fuori dal prestigio e dalla regia sociale per mancanza di cultura, per condizione economica, per circostanze avverse della vita… eppure cercano faticosamente una via d’uscita, un’alternativa, una sorta di riscatto.
La sete di qualcosa di nuovo e di bello circola anche nella chiesa, in quei discepoli del Cristo che sentono su di sé la possibilità, purtroppo a lungo e ancora repressa, di aprire nuove strade, di inventare nuovi linguaggi per dire la bellezza del Vangelo.
Mi sembra che a quel banchetto di nozze di Cana sia invitata l’umanità intera, perché Gesù sa che la nostra vita potrebbe essere una festa, potrebbe essere piena di gente, di gioia, di amici… in realtà ci siamo tutti noi, ma con le nostre giare di pietra.
Una montagna di giare di pietra che appesantiscono le nostre vite già così faticose di per sé stesse, sono quelle giare cui attingiamo per essere contenti, per trovarvi gioia e felicità… ognuno di noi, in realtà, attinge quello che vuole trovare.
L’intuizione è donna, Maria immediatamente coglie questa sete: non hanno vino! Poteva fare come tutte le altre e brontolare, lamentarsi, poteva fermarsi alla constatazione, poteva dire a Gesù: andiamocene a casa perché qui la festa non va a finire bene.
Non hanno vino, non è una parola sussurrata, è un appello, un’invocazione, oserei dire un grido rivolto a Gesù perché non si riesce da soli a trovare soddisfazione a questa sete di gioia, di vita, di bellezza.
Gesù siamo stanchi di queste giare di acqua, a che serve una religiosità della purificazione? Siamo sempre qui a lavarci, sempre a crogiolarci nella condizione di peccatori inesausti… siamo stanchi di una chiesa che ripete le stesse cose, con parole asettiche e lontane dalla vita. Sembra proprio che sia incistata nel mantenere i suoi otri vecchi…
Gesù quante persone ancora dovranno diventare schiave del gioco, della droga, del denaro… prima di rendersi conto che la gioia è altrove?
Gesù quanti giovani dovremo perdere per strada perché non doniamo loro il vangelo, ma le nostre stantie abitudini e tradizioni?
Il Signore inizia i suoi segni con una festa d’amore. Poteva scegliere una cosa più religiosa, più ‘sacra’, più devota… anche perché non si sa mai come vanno a finire queste feste, quando l’ebrezza e l’allegria prendono il sopravvento.
Non c’è immagine più bella dell’amore di Dio per noi che la festa di nozze: sì perché quando si parla di Dio non è immediato che pensiamo all’amore, pensiamo piuttosto ai nostri peccati, alle sue leggi, al suo giudizio. E questa è l’enorme quantità d’acqua che contengono le giare.
Ma se Gesù inizia col vino è perché vuole ribaltare i parametri: l’acqua la portiamo noi e ne abbiamo da vendere, ma l’acqua lava l’esterno, purifica ciò che di lì a poco sarà di nuovo sozzo.
Il vino entra dentro e ti scalda il cuore. La casta sacerdotale aveva dato importanza al peccato per inculcare il senso di colpa nelle persone e tenerle nella costrizione e nella paura.
Se Dio ha fatto tutto con amore, perché dobbiamo distinguere tra sacro e profano, tra animali puri e impuri, perché cercare nelle formalità quella purezza che viene non dall’essere senza peccato, cosa peraltro impossibile, ma dall’amare?
Guai se alla festa manca il vino, nel senso che l’acqua, ovvero quella religiosità formale che scivola sulla pelle e non entra nelle fibre del cuore è triste di suo, è noiosa, non dà gioia. Vive di paura, di sensi di colpa.
Il vino è metafora di quel sangue che racconta il donarsi di Gesù per amore, per dirci di quale amore è capace Dio per noi: è lui che inaugura il cambiamento radicale del rapporto tra Dio e gli uomini: l’acqua viene cambiata in vino.
L’acqua provvedeva alla purificazione esteriore dell’individuo, il vino offerto da Cristo, buono e abbondante, penetra dentro di noi, diventa sangue e ci rende pieni di gioia, ci fa sentire in comunione gli uni con gli altri.
Ecco che nel rivivere l’ultima cena anche noi diremo le parole di Gesù sul calice: Questo è il sangue della nuova ed eterna alleanza. Nella nuova ed eterna alleanza non c’è bisogno della purificazione esteriore, ma di comunione, perché è l’amore che cambia, è il vino donato, il sangue versato, la vita spesa che dà gioia.
Non riduciamo la vita cristiana a una montagna di giare di pietra: non trasmetteremo niente ai nostri ragazzi se non la stoltezza delle nostre tradizioni.
Non si tratta nemmeno di spaccare le giare di pietra a martellate, piuttosto di portarle a Cristo, si tratta di rimettere il Cristo al centro delle nozze, riportiamo a lui la nostra vita. È Maria che ce lo insegna: perché lui trasforma, lui cambia, lui può fare quello che noi non crediamo e non riusciamo a fare.
Qualsiasi cosa vi dica fatela. E il Vangelo ha sempre da dirci cose nuove, ogni volta che lo ascoltiamo. Non ci chiede di ripetere le cose di sempre, ma di fare ciò che lui ci indica. Cosa devo fare Signore? Portiamo le nostre giare a lui, portiamo il peso che ci ingombra perché lo trasformi in amore.
(Gv 2, 1-11)