VI DI AVVENTO Domenica dell’Incarnazione o della Divina Maternità della beata Vergine Maria - Lc 1, 26-38a
Forse non ci lasciamo più cogliere dallo stupore ascoltando questa che è una delle pagine più conosciute del Vangelo e di tutta la Scrittura.
Prima ancora di domandarci il «come» dell’incarnazione ovvero la fecondazione per Spirito Santo di Maria, non diamo per scontata l’umiltà di Dio nel prendere forma nel grembo di una ragazza, non diamo per scontata la disponibilità dell’Eterno ad assumere carne e sangue umani, né che il Creatore si adatti a prendere casa in un villaggio (è ciò che nel linguaggio liturgico e teologico si chiama «incarnazione»). Nulla del genere è mai avvenuto nella storia, è un evento letteralmente “inaudito”.
Non so se Maria avesse mai sentito i racconti della mitologia pagana nei quali si narra frequentemente di unioni tra divinità maschili e donne del mondo umano, unioni per lo più subite da queste ultime. Ma che il mistero santo di Dio si unisca definitivamente con l’umanità nel modo dell’incarnazione va al di là del mito, della proiezione cioè di un modello umano in un mondo ideale, ma è anche qualcosa che oltrepassa le attese di Israele e i confini del pensiero stesso.
Infatti sappiamo dove conduce la coerente fedeltà di questa decisione dell’Eterno: non porterà Gesù a salire in alto ai posti di comando e di potere, per trionfare e dominare.
L’aver assunto la condizione umana conduce il Cristo a dar da mangiare agli affamati, a servire gli ultimi, a camminare accanto ai deboli, a sostenere gli sfiduciati, fino a consegnare la sua vita.
Ed è sempre difficile per noi accettare l’umiliazione totale della potenza nell’impotenza divina, nella debolezza definitiva di Dio che in Gesù arriva perfino a morire sulla croce.
Lo annunciava Isaia nella prima lettura, quando nel dialogo stringente tra il profeta e Dio che si presenta come il vendemmiatore, ci descrive che i suoi abiti sono rossi come quelli di chi pigia nel torchio, nella lettura del profeta è il rosso del sangue dei nemici vinti da Dio.
E noi sappiamo che gli abiti di Dio vestiti da Gesù si sono tinti di rosso per il suo sangue versato, non per quello degli altri. Questo mi sembra essere il primo motivo che ci dispone al Natale lasciandoci cogliere dallo stupore di un Dio che non si accontenta di essere temuto, ma vuole essere amato, vuole essere accolto, vuole essere ospitato mentre si china su di noi, si dona.
A questo punto, anche noi come Maria, ci domandiamo «come sia possibile»? Maria è una ragazza di Nazaret con i suoi progetti, le sue abitudini, le sue relazioni, e che ad un certo punto viene presa, afferrata e condotta verso un’esperienza inedita.
Le parole dell’angelo infatti la lasciano «molto turbata» e, scrive Luca, si domandava che senso avesse quel saluto. Luca registra che Maria si pone la domanda di senso. Questo è il secondo motivo per vivere con stupore questo Natale.
Noi ci saremmo chiesti se quell’angelo non fosse una suggestione, un’infatuazione mistica, una alienazione… insomma non è sempre la domanda di senso che ci interessa, piuttosto ci tormentiamo con la questione: «ma sarà vero?». Ma che cosa è vero?
Tutto ciò che verifichiamo, con prove provate, con i criteri dell’oggettività?Non è forse vero che amiamo, che pensiamo, che speriamo, tutta la ricchezza che abbiamo dentro e che nessuno potrà mai verificare?
Mentre cerchiamo la prova scientifica, per così dire, di quello che accade dentro e fuori di noi, la storia ci scorre tra le dita e non abbiamo più il senso delle cose, delle relazioni, della vita.
Ed è custodendo nel cuore la domanda di senso che Maria saprà attraversare una vita per niente facile, anche se dobbiamo riconoscere di sapere molto poco di lei e per questo non dobbiamo immaginare delle cose nostre e farle dire più cose di quelle che ha detto.
Sappiamo che dalla gioia dell’annunciazione il suo itinerario è stato in salita. La nascita di Gesù secondo Luca è avvenuta davvero in condizioni inumane. Quando lo porta al tempio riceve la benedizione del sacerdote, ma nello stesso tempo anche una profezia difficile da ascoltare che prevedeva un futuro di dolore. A Gerusalemme, all’età del bar mitswâ, Gesù lascia i suoi, rifiutando di dare spiegazioni: Non capite?. E Maria ha dovuto accettare.
E poi mentre questo figlio cresceva, ha dovuto registrare, come ogni madre, la crescita anche della distanza, sempre più grande, tra lei e il Figlio. Nella vita pubblica di Gesù, gli unici accenni ci dicono che la madre è tenuta da parte: Chi sono mia madre e i miei fratelli? Non è stata ammessa a partecipare alla missione del Figlio, non è stata associata agli apostoli; alla risurrezione si dice che c’erano le donne, mentre della madre non si dice niente: ogni suo passo fatto verso Gesù è stato respinto. L’unico luogo dove non è respinta è sotto la croce: qui la sua maternità si è tinta di rosso, del sangue del Figlio.
E lungo il vangelo di lei non si dice altro che: «Meditava queste cose nel suo cuore». Niente di glorioso, soltanto silenzio. Esteriormente, è respinta; nel suo cuore invece meditava, meditava quel senso suggeritole da un angelo di Dio.
Quell’angelo che sfugge alle nostre gabbie mentali e culturali, intellettuali e scientifiche: l’angelo che ci dona un’altra dimensione della realtà, ma non per questo meno vera, esige che ci fidiamo di Dio e dei segni che depone nella storia.
Se, come ci insegna la tradizione dei Padri e il Concilio Vaticano II, Maria è immagine della Chiesa, è l’icona dei discepoli di Cristo, questo significa che un po’ di noi è anche in lei e un po’ di lei ci appartiene.
Nel senso che l’incarnazione di Dio e la maternità di Maria sono una festa che ci chiede di imparare dall’Eterno a scendere nella condizione dell’altro, a immedesimarci, a condividere.
Mentre nella logica del mondo noi ogni giorno vediamo che chi sta in alto, chi sta sopra di noi, siano essi i nostri capi, i nostri governanti, i nostri politici… sono sempre più lontani dai problemi veri della vita, constatiamo uno scollamento grande tra loro e chi deve affrontare giorno per giorno la responsabilità di una famiglia, la ricerca di un lavoro, o anche chi semplicemente deve far bastare la pensione fino a fine mese…
Così anche nella Chiesa, che sta nel mondo come il lievito nella pasta, sull’esempio di Maria dovrebbe essere segno di incarnazione nei sentieri dell’uomo, di condivisione con chi fa fatica, con chi è ai margini, con i senza diritti e i senza dignità…
I Padri narrano della missione della Chiesa con la metafora della luna: la Chiesa come la luna riflette la luce del sole, il suo sole è Cristo, la Chiesa non ha luce propria, ma riflette la sua luce, proprio come la luna. E noi diciamo che come la luna anche la Chiesa ha le sue fasi, ora una fase calante, ora una fase crescente… ma in ogni fase la sua missione è di essere relativa al suo Signore.
Anche la maternità della Chiesa è chiamata a tingersi di rosso, nel senso del mettersi a servizio dell’umanità, non nel mettere se stessa al centro, ma al servizio, consapevole di avere solo una funzione provvisoria, come germe e inizio del regno di Dio per tutta l’umanità. Non è la Chiesa il fine della creazione, ma il regno di Dio.
Nel Vangelo le parabole annunziano il regno di Dio, non la Chiesa, e questa è la nostra missione: servire la diffusione del regno nei cuori degli uomini, di ogni uomo…
Ma è anche vero che la Chiesa sarà fedele all’immagine di Maria, sarà cioè dimentica di sé e rinuncerà a una mentalità clericale fatta di privilegi, se ciascuno di noi, come famiglie e come comunità, sapremo ascoltare la voce dell’angelo che ancora ci narra l’inaudito di Dio, ovvero la vita di Gesù e della sua discesa nel servizio del più povero tra gli uomini.
(Is 62, 10-63,3;Fil 4, 4-9; Lc 1, 26-38a)