II DOPO LA DEDICAZIONE - La partecipazione delle genti alla salvezza - Lc 14, 1a. 15-24


(Is 56, 3-7; Ef 2, 11-22; Lc 14, 1a. 15-24)

Se non fosse che la parabola che abbiamo ascoltato ci sia così familiare, sentiremmo ancor più profondamente quanto sia irreale. È fuori dalla realtà almeno per due motivi: anzitutto per il fatto che tutti gli invitati in un colpo solo – come per un accordo – rinunciano all’invito, cosa che appare del tutto improbabile.

Immaginiamo la scena, siccome era una cortesia in uso negli ambienti distinti di Gerusalemme inviare dei servi per rinnovare l’invito al momento di inizio del pasto, appare impossibile che per tutta risposta gli invitati proprio quando ormai tutto è preparato si neghino… è un’esagerazione, anche perché le scuse che adducono erano loro note da tempo.

Infatti il campo che il primo deve andare a vedere, di sicuro non l’ha acquistato senza aver fatto un piano di investimento! Così come chi ha comprato cinque paia di buoi e vuole provarli, possiede dunque almeno 45 ettari di terra, probabilmente anche di più, quindi è un latifondista… Il terzo, è uno sposo novello e siccome ai pranzi venivano invitati solo gli uomini, non volendo lasciare a casa la moglie da sola proprio nei primi giorni di matrimonio, dice di no. Questo per dire che le scuse apportate non sono urgenze dell’ultimo minuto, ma sono situazioni ampiamente prevedibili.

C’è un secondo motivo per cui la parabola può sembrarci fuori dalla realtà. Nella comunità di Qumran era previsto che nel combattimento finale della storia e nel banchetto che ne seguiva i poveri, i ciechi, gli storpi e gli zoppi fossero esclusi.

Anche se portare a casa un indigente per il pasto dei giorni festivi era considerato come un’opera buona… appare fuori dalla realtà che una casa venga riempita di mendicanti per una festa! Al punto che anche i poveri osservano l’uso di cortesia orientale di schermirsi per modestia dall’invito, finché non vengono presi per mano e quasi portati in casa, tanto pare impossibile anche a loro una cosa del genere.

Il linguaggio paradossale di Gesù ha però un primo risultato che incontriamo di frequente nelle occasioni date da queste cene. Infatti il Signore amava stare a tavola, al punto che veniva schernito come mangione e beone, al contrario del più ascetico Giovanni Battista, ma perché era l’occasione in cui più facilmente poteva mettere a suo agio i suoi interlocutori per poi offrire loro occasioni di riflessione e di ragionamento.

Così che spesso si veniva a creare una certa tensione per il fatto che gli ascoltatori non faticavano a identificarsi con gli improbabili protagonisti delle parabole come in questo caso degli invitati alla grande cena che rifiutano: Ho comprato un campo; ho comprato dei buoi; ho preso moglie… la dominante delle scuse è il verbo «avere»: l’avere toglie la libertà.

Credo che tutti abbiamo conosciuto e praticato l’amarezza di questo rifiuto, per motivi che oggi ci fanno arrossire e ci rattristano.

Siamo sempre pronti a dire: «Ho anch’io i miei progetti, i miei obiettivi nella vita» e si tratta pur sempre di affari, lavoro e famiglia! Non sono affatto cose turpi, non sono peccati, ma Gesù ci avverte che quando le necessità della vita non vengono vissute nella prospettiva del regno di Dio, quando le avvertiamo come cose che dipendono solo da noi, diventano esse stesse degli idoli, passano davanti all’Eterno. Allora ci sarà sempre un lavoro da fare, ci sarà sempre un impegno da assolvere o un amore da coltivare prima di vivere il Vangelo.

Possiamo trarre due indicazioni per la nostra vita.

La prima è più a carattere personale e ci viene ripetuta da tutte e tre le letture di oggi: prima ancora del nostro impegno, prima ancora del nostro cercare, del nostro pregare … all’inizio c’è la caparbietà e l’ostinazione di un Dio che vuole raggiungere tutti gli uomini con il suo amore, come dice Gesù.

Se la lettura tradizionale della parabola vede negli invitati recalcitranti il popolo ebraico che non riconosce Gesù, e questo è vero in parte, penso che oggi dobbiamo vedere noi stessi molto coinvolti in questa vicenda dell’invito e del rifiuto, perché noi, e nessuno come noi, abbiamo ricevuto il grande invito al banchetto di Dio, al sogno di Dio.

Lo diceva già Isaia, o il profeta anonimo del V secolo a.C.: «Così dice il Signore: la mia casa si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli».

Paolo per esprimere lo stesso concetto ricorre a una doppia serie di immagini la prima tratta dall’ambiente famigliare e la seconda dall’architettura: «Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi e familiari di Dio edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti».

Il sogno di Dio è che nessuno dei suoi figli e delle sue figlie si senta escluso dal suo amore. Il sogno di Dio è l’inclusione, non l’esclusione! Poi uno si esclude da sé con le mille scuse di affari, lavoro e famiglia… che sono dei pretesti, ma dobbiamo sapere che la cena è pronta.

Ed è proprio questo dono di un banchetto già preparato che costituisce un secondo monito per noi come Chiesa perché il Signore ci ricorda che alla fine chi partecipa al banchetto sono le persone più libere di questa terra: i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi!

Vedo gli uditori di Gesù che sogghignano mentre immaginano l’alta società di Gerusalemme che, sbirciando dalle finestre, osserva ironicamente lo strano corteo di ospiti spelacchiati che si avviano al banchetto. Eppure questa dovrebbe essere la comunità degli invitati!

Uno degli interventi fondamentali al Concilio Vaticano II, anche se poi nel tempo non ha avuto grande seguito, è stato quello che ha chiesto che la Chiesa diventasse “Chiesa di poveri”, e non solamente la Chiesa che ama i poveri e che fa delle attività «per i poveri», ma che fosse una Chiesa povera.

Quando la chiesa, anziché manifestare la sua vera natura e far apparire il Vangelo in tutta la sua forza, si preoccupa, mediante l’azione organizzata (scuole, ospedali, attività sociali…) di esercitare un influsso esteriore sulla società in realtà vela, anziché svelare la parola del Vangelo.

La povertà non è solamente un ornamento e una virtù dei singoli, ma è anche povertà dell’intera comunità nelle sue strutture e nel suo stile di vita, perché la fede è “salvezza”, e la salvezza dice l’intervento del Salvatore nei confronti delle nostre povertà, dalle quali nessuno è esente.