VI DOPO L’EPIFANIA - Lc 17, 11-19


audio 13 feb 2022

Proviamo a immaginare anche solo per un istante la colonna di mostri in cammino: chi si trascina perché non ha piedi, chi agita braccia mozzate perché non ha mani. Tutti hanno unicamente voce.

D’altronde la città si difende. I lebbrosi sono un pericolo gravissimo, la lebbra distrugge addirittura la sembianza umana, corrode il tessuto più resistente, altera la natura, fa di una persona un moncone, come un tronco senza rami.

Eppure come lebbrosi si può benissimo stare insieme ebrei e samaritani, ci dice Luca: si è comunque tutti scartati e maledetti, così che in queste condizioni, anche le differenze religiose, etniche, culturali… passano decisamente in secondo piano.

Almeno per una volta c’è un posto e un tempo in cui non esistono distinzioni o divisioni di sorta: un luogo per una fraternità paradossale e forse non voluta da nessuno, da cui si innalza infatti una sola preghiera: Gesù maestro abbi pietà di noi! Kyrie eleison!

Una sola preghiera sale da questa macabra processione, sempre la stessa. È sempre umanità, per quanto mostruosa, di mendicanti, di scartati, di stranieri che grida misericordia, sì perché è stato detto loro che non hanno più nemmeno un Dio da invocare, la lebbra come sigillo tangibile sulla loro carne di un castigo, di una punizione irrevocabile.

Permettetemi un ricordo personale che risale agli anni ‘80-’90 quando l’Aids falciava giovani vite senza guardare in faccia a nessuno, eppure anche allora c’era chi andava dicendo che era il castigo di Dio. Il cardinale Siri in un’intervista al settimanale di “Comunione e Liberazione” proclamava che l’AIDS era «Uno strale celeste, una malattia inviata da Dio per punire il peccato sessuale». Mentre un vescovo toscano intimava: «Chi ha il sospetto d’essere contagiato bussi alla porta del prete e cada in ginocchio, chiedendo perdono per i suoi peccati».

In mezzo a questa orda di maledetti ricordo Marilena, una giovane donna, una bella ragazza, rovinata dall’eroina e da tutto quello che l’accompagnava e che aveva avuto una bimba, alla quale però aveva trasmesso anche l’HIV. I malati di Aids erano i lebbrosi di quegli anni. Mamma e figlia erano tenute a distanza da tutti, dai compagni di scuola, dai vicini… emarginate e considerate appunto pericolose, sbagliate.

Marilena era stupita che un prete si potesse interessare di lei e della sua bambina. Perché, mi diceva, Dio l’aveva castigata con l’Aids per punirla a causa di una vita “disordinata” che tra l’altro le aveva fatto bruciare nell’eroina gli anni migliori.

Il prete non poteva che essere visto come il mandatario del giudice a confermare la condanna, il giudizio, la punizione. Infatti l’avere dato la vita a una bimba alla quale aveva trasmesso anche la morte era il castigo peggiore che potesse ricevere da un Dio veramente adirato con lei. Scriveva nel suo diario: Stai ancora scrollandoti di dosso l’angoscia di aver sbagliato ed ecco che ti arriva la mazzata finale.

È stato uno di quegli incontri che mi hanno cambiato la vita. Per qualche anno, prima che l’Aids se le portasse via entrambe, io per primo ho dovuto imparare a riconoscere che anche nella distanza abissale dalla pratica religiosa, mentre quella giovane donna gridava a un Dio che riteneva improbabile potesse ascoltarla perché nemmeno gli altri la ascoltavano, era possibile il Vangelo della tenerezza e della liberazione.

Non potevamo in quegli anni parlare di cura e di guarigione dal virus, ma almeno le ferite intime e le lacerazioni interiori quelle sì che si potevano curare e credo che si sia salvata, per dirla con le parole di Gesù, quando giunse finalmente a riconciliarsi con Dio (e con l’idea di lui che si era fatta) e con sé stessa anzitutto, così da voler ricevere l’eucaristia prima di morire.

La piccola qualche tempo dopo, mi diede conferma di aver colto il cambiamento avvenuto nella mamma, quando ormai anch’essa vicina alla morte, con l’innocenza di una bambina di pochi anni mi disse: Mi dai una scala per andare in cielo dalla mia mamma?

Posso dirvi che in quegli anni ho fatto l’università di “teologia della strada” che mi ha fatto ribaltare gli schemi imparati sui manuali di teologia, che mi ha fatto dismettere, almeno lo spero, il linguaggio clericale e mi ha insegnato a scavalcare i perimetri moralistici della condanna e del giudizio… per rendermi conto che il Vangelo è possibile ieri, oggi, sempre e che a dirmelo è stata, per così dire, una “straniera”.

È anche vero che tra le decine e decine di persone di cui ci siamo presi cura, poche hanno fatto un cammino come Marilena.

D’altronde se guardiamo ai Vangeli, le statistiche sono da paura: uno solo su dieci. Molti i chiamati pochi gli eletti. Su dodici apostoli, uno tradisce, e sotto la croce nessuno degli altri se non il solo Giovanni. Novantanove sono le pecore lasciate all’ovile, una invece ricercata e portata a spalle. E poi la dramma perduta e ritrovata. E oggi, dieci guariti e uno solo che torna a ringraziare.

Non è facile accogliere con umiltà la lezione che ci viene da queste percentuali da paura: uno su dieci è anche salvato perché finalmente si è liberato dall’idea di un Dio che gode nel condannare l’uomo e dall’idea di uomo che perpetua questo modo di agire con gli altri.

Il lebbroso, quello samaritano, è stato guarito, purificato per cui non fa più paura agli altri, ma nell’incontro con Gesù è stato anche liberato dalla paura di Dio e per questo torna da salvato a ringraziare, perché riconosce il dono di Dio.

Quando si tratta di dire che il samaritano guarito torna indietro a ringraziare, Luca ricorre al verbo dell’eucaristia che è ringraziare. È un lebbroso e straniero che fa eucaristia. Cosa ci fa pensare questa cosa?

Che noi abbiamo fatto della Cena del Signore un banchetto esclusivo, quando Gesù lo ha voluto inclusivo.

Già domenica scorsa abbiamo compreso che la preghiera che diciamo prima di accostarci alla comunione, è il calco delle parole di un pagano. Oggi Luca ci dice che anche un samaritano e per di più lebbroso fa eucaristia.

Pensate un po’ come la Cena del Signore, il luogo della massima comunione del Signore con tutti i discepoli, anche con Giuda, è diventato nel tempo il luogo della comunione negata o riservata, comunque ristretta.

Gesù invece ha dato il pane e il vino anche a Giuda, costituendo intorno a quella tavola una fraternità paradossale, per la quale possiamo sempre, perlomeno, attribuirci il ruolo di Giuda. Se vogliamo davvero celebrare l’Eucaristia come l’ha celebrata Gesù, cioè anche con Giuda, allora accogliamo anche Giuda, accogliamo il lebbroso, il samaritano alla nostra mensa.

Per questo continuiamo a fare eucaristia, a ringraziare il Signore, perché la fraternità cristiana non è fatta di persone elette, impeccabili, mostruose nella loro ipocrisia, ma è una fraternità fatta da persone che non sempre hanno frequentato il mondo che noi frequentiamo, che non sempre hanno una professione di fede ortodossa, anzi spesso vengono messe ai margini dai sistemi religiosi, dalle regole religiose…

Basterebbe pensare che se oggi si parla di lotta per la giustizia, di tutela dei diritti, di libertà d’espressione… cose tutte che sono già nel vangelo, tuttavia, storicamente, ci sono state ricordate dagli altri, dai cosiddetti “stranieri”. Perché dobbiamo vivere sempre di questa profezia in ritardo, abbiamo forse addomesticato il Vangelo?

Ringraziamo Dio con tutto il cuore, perché non smette di farci toccare con mano la sua misericordia e continua a sbaragliare le nostre geometrie che stabiliscono confini tra puri e impuri, tra idonei e non idonei, per annunciare che il suo regno non segue queste regole e che la fraternità che lui ha costituito non coincide con le nostre organizzazioni, nella misura in cui escludiamo ciò che lui ha voluto riunire.

Per questo ancora oggi è già un miracolo se qualcuno torna indietro a ringraziare Gesù.

(Lc 17,11-19)