I DI AVVENTO - Mt 24, 1-31
Mi piace pensare alla domenica come a un laboratorio spirituale, nel senso che siamo qui nella fedeltà al mandato di Cristo, nell’incontro con lui Risorto e questo incontro ci anima, ci stimola a non essere semplicemente dei ripetitori automatici delle sue parole e della sua storia, ma di essere appunto un laboratorio nel senso che facciamo in modo che la parola del Vangelo ci aiuti a guardare… dentro l’acqua alta di Venezia e dentro le polveri di Taranto!
Cito questi due esempi di attualità del nostro Paese, ma dovremmo allargare lo sguardo sulle piazze che nel mondo oggi sono luogo di protesta e di contestazione per la mancanza fondamentale dei diritti umani…. O la nostra fede si misura sulla realtà di oggi, o ascoltiamo il Vangelo di Gesù con i piedi ben piantati per terra consapevoli delle responsabilità cui siamo chiamati, oppure siamo all’evasione nell’illusione religiosa, nella fuga nell’intimismo…
Possiamo, anzi dobbiamo, guardare le cose che accadono andando alla ricerca delle responsabilità politiche, ed è un livello; oppure cercando le cause del dissesto a livello scientifico, ed è un altro livello; o ancora nell’intento di comprendere l’impatto ambientale del nostro stile di vita ed è un altro ancora…
Così come possiamo arrivare a sera, più o meno contenti della giornata, e metterci a guardare un po’ di televisione per poi andare a letto… senza chiederci nulla, senza registrare quello che accade nel nostro cuore, senza considerare attentamente quanto abbiamo vissuto, condiviso, senza comprendere un accidente del cammino che stiamo facendo.
Le parole di Gesù di oggi sono tratte dal cap. 24 che precedono il capitolo che abbiamo letto domenica scorsa, per cui dovremmo tenerli insieme così come li aveva pensati Matteo. Domenica scorsa Gesù ci diceva che c’è un giudizio su ciò che chiamiamo storia, sulle nostre vite, sui nostri comportamenti, sulle nostre scelte. Un giudizio che non è affidato alla società di sondaggi del momento, né ai politici, né ai sociologi e tantomeno ai preti.
C’è un giudizio che viene da fuori del mondo: il finale del Vangelo di oggi dice che Il figlio dell’uomo verrà sulle nubi del cielo con grande potenza… e la pagina di domenica scorsa ci diceva appunto che Gesù viene a giudicare se abbiamo amato o meno. Non se abbiamo amato chi ci amava, ma se ci siamo presi cura dei poveri, dei carcerati, dei malati, degli stranieri…
Il mondo è giudicato da lui e non da noi. Questo è il primo dato del Vangelo di oggi e un poco ci dà fastidio perché la volontà del mondo è quella di essere autoreferenziale, di valutare le cose in una prospettiva intramondana e non accettiamo facilmente per il nostro animo laicista – presente anche in ciascuno di noi – che ci sia un giudizio dal di fuori.
Questo costituisce un punto di osservazione importante: da qui impariamo a guardare la vita, le relazioni, le scelte che facciamo in modo diverso, perché se il giudizio su ciò che facciamo è solo intramondano di conseguenza il nostro vivere sarà un continuo adeguamento, un continuo conformarci a quello che il mondo vuole, a quello che la cultura di adesso esige, a quello che il modo di pensare diffuso impone.
Se invece assumiamo la prospettiva del giudizio di Gesù, accogliamo un’istanza che a dire il vero è già in noi e che esprimiamo in tanti modi. Come quando desideriamo semplicemente partire per un viaggio, in qualche modo esprimiamo la volontà di uscire dall’adeguamento nella routine quotidiana nella quale nonostante tutto ci siamo lasciati rinchiudere, così che uscendone ci sembra di tornare ad esistere!
E se le parole hanno un loro senso, quando diciamo “esistere” rimandiamo letteralmente al latino “ex-sistere”, al tenersi fuori, al chiamarsi fuori… perché avvertiamo profondamente l’istanza di andare oltre, di uscire dall’adeguamento, dall’adattamento, dal conformismo che per un verso ci rassicura, ma al contempo ci satura, ci ostruisce non lasciando spazio di futuro per reinventarci.
Seguiamo questa fessura che si apre nel nostro modo di pensare, ascoltiamo questa istanza che emerge dalle profondità delle nostre emozioni e pensieri, altrimenti ci impantaniamo nell’immobilismo delle abitudini, della schiavitù del carattere, nella rassegnazione di fronte alle situazioni storiche, ai poteri forti, condannati a ripetere le stesse cose e costretti alla vita ma… senza esistere.
Pensate quale forza può avere nelle nostre vite la promessa di Gesù di tornare a giudicare. Accogliere il giudizio del Cristo che viene sulle nubi del cielo significa lasciarci raggiungere da qualcosa di inedito, di inatteso, di imprevedibile che ci mette nella condizione di reinventarci, di ripensarci al punto che ritroviamo davvero noi stessi nel momento in cui ci apriamo all’Altro oltre noi.
“Il soggetto, dice un filosofo contemporaneo, si ritrova effettivamente in se stesso dal momento in cui si apre all’infinito” [1].
In altri termini: di fronte al dilagare dell’iniquità di cui parla Gesù, così travolgente da raffreddare l’amore di molti e che Paolo riprende nella sua lettera ai Tessalonicesi quando constata che il mistero dell’iniquità è il vero antagonista del Vangelo, come reagiamo? Ci rassegniamo frustrati e tristi? Ci chiudiamo nel nostro guscio depressi e nervosi?
Cosa facciamo? Isaia con un linguaggio paradossale ci dice una cosa apparentemente semplice: Alzate al cielo i vostri occhi e guardate la terra di sotto.
Alziamo gli occhi al cielo e guardiamo la terra di sotto per imparare a discernere – è la seconda cosa che dice Gesù nel Vangelo – che il “fare” del mondo ha una fine. Il mondo che l’uomo costruisce tanto affannosamente non ha uno sviluppo indefinito, ha un termine che non è semplicemente biologico, dovuto al fatto che tra miliardi di anni il sole non riscalderà più la terra.
Non dobbiamo percorrere un cammino indefinito di progresso o di regresso… il “fare” del mondo non è destinato a girare per sempre su sé stesso, a esaurirsi in sé, ma ha un punto di riferimento: il ritorno di Cristo, l’incontro con lui.
Quindi noi siamo in quella condizione per cui per un verso riconosciamo Cristo nel povero, lo accogliamo nelle persone qui oggi, ci impegniamo ad amare, a lottare per la giustizia… perché saremo giudicati sull’amore. Per un altro preghiamo il Signore che “venga il suo regno”, come diciamo nel Padrenostro.
Venga il tuo regno non è la preghiera del singolo devoto che vuol fuggire il mondo, non è la preghiera del fanatico, dell’ostinato riformatore che si aspetta chissà osa, è la preghiera che Gesù ci ha insegnato a dire insieme.
È la preghiera dei figli della terra che non si isolano, di chi non ha particolari progetti per migliorare il mondo, di chi non si sente migliore degli altri, è la preghiera di chi proprio perché fedele alla terra tiene fisso lo sguardo sulla promessa di Dio che al centro del mondo morente, dilaniato, assetato… dice: vedrete il Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria.
Non viene come una catastrofe che polverizza il nostro fare, anzi quando diciamo: venga il tuo regno, lo diciamo con speranza se è ciò per cui abbiamo impegnato la nostra vita.
Mi viene da condividere con voi una semplice domanda: Come ci immaginiamo il regno di Dio in terra? Cosa vorremmo facesse l’Eterno?
Probabilmente ci vengono in mente tante cose, ma non ci deve sorprendere se appena cominciamo seriamente a porci questa domanda e vogliamo rispondere, non sappiamo bene cosa pensare. Non si tratta di immaginarci chissà che cosa, ma di pensare al regno di Dio che viene oggi a Venezia, a Taranto, nelle piazze di Hong Kong, della Bolivia…
“Venezia, senza difese adeguate, al più tardi nel 2100 sarà sommersa; Taranto assai prima, con la fuga di Arcelor Mittal e senza più la grande manifattura, sarà una cittadina fantasma, depressa. L’una abbandonata al proprio destino di sprofondo, l’altra lasciata sola per l’ennesima volta dal disimpegno imprenditoriale”, scrive oggi un giornalista.
Venezia che muore e Taranto che si spegne rappresentano oggi, loro malgrado, le città simbolo della sofferenza, del contrasto fra uomo e natura e dell’apparente inguaribilità dai propri mali.
Rassegnati alla corruzione, oppressi dagli interessi di parte non riusciamo a vedere un futuro. Come se un ineluttabile fato ci spingesse verso il declino. E portasse troppi di noi a metterlo definitivamente in conto, a darlo per scontato.
La prospettiva evangelica di una storia umana che va verso l’incontro con Cristo ci può aiutare a pensarci impegnati insieme e perciò responsabili del nostro destino tutto da scrivere, tutto da determinare.
Non è stato così ad esempio per una città come Matera? Ci sono volute le parole del “Cristo si è fermato a Eboli” di Carlo Levi che nel Dopoguerra riuscì a porre all’attenzione del Paese e della politica quella che era una vergogna dell’Italia per la vita misera dei contadini nei Sassi?
Fu anche quel racconto che favorì la nascita dell’impegno corale dei grandi partiti di allora, degli architetti e di imprenditori illuminati come Adriano Olivetti per determinare il riscatto degli abitanti di quella città.
«Di una città – scrive Italo Calvino – non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda».
E ci rendiamo conto che la nostra domanda, ciò che cerchiamo in una città è soprattutto la relazione con gli altri, è il sentirci parte di una comunità. Cioè identificarci in una comunanza di valori e di intenti, sapere di non essere soli nelle difficoltà e tendere al bene comune. Che è la domanda del Padrenostro: Venga il tuo regno!
E allora, in fondo, tutto ciò che ci serve a Venezia come a Taranto ma direi in tutte le città del mondo è il coraggio di tessere relazioni, di crescere nell’appartenenza per arginare il dilagare dell’iniquità e non far raffreddare l’amore.
(Is 51,4-8; Mt 24,1-31)
[1] Cf Francois Jullien, Il gioco dell’esistenza, Feltrinelli 2019