DOMENICA DELLE PALME messa nel giorno - Gv 11, 55-12, 11


Oggi la parola di Dio è tutta luce, visione, volti che si illuminano: Mosè scende dal Sinai con il viso raggiante, l’incontro con l’Eterno lo ha trasfigurato senza che lui se ne rendesse conto!

Paolo ai cristiani di Corinto scrive che il volto dei discepoli riflette la luce dello Spirito santo e poi Giovanni nel vangelo ci ha raccontato come Gesù abbia acceso di luce la vita di un uomo cieco dalla nascita.

Anche noi ieri abbiamo vissuto un’esperienza di luce: la visita di papa Francesco è stata un grande dono per noi, per la nostra città, per la nostra chiesa. Cosa ha spinto migliaia di persone a cercare di vedere il volto del successore di Pietro? Al di là del superficiale poter dire « c’ero anch’io » o poter esibire una foto con il suo volto…  cosa cerca lo sguardo di chi ha fatto ore di attesa per vedere papa Francesco? Cosa cercano i nostri occhi?

Siamo un poco nella condizione di Mosè: vorremmo vedere Dio, vorremmo illuminare il mistero profondo della nostra umanità, della nostra esistenza, della nostra fede.

Ma Mosè non ha visto Dio, piuttosto Dio ha visto lui. Ed è lo sguardo dell’Eterno che ha cambiato e ha trasfigurato Mosè al punto che la pelle del suo volto era divenuta raggiante come il sole, e lui peraltro non se ne rendeva conto!

Succede anche a noi, appunto come è accaduto ieri, quando vediamo un uomo di Dio cerchiamo il suo volto perché vi è riflessa la luce di Dio, cogliamo nella sua parola e nella sua testimonianza un dono per noi da parte di Dio, per aiutarci a non brancolare nel buio, a non inciampare, per non cadere e per continuare a camminare. Infatti Mosè è stato trasfigurato in volto per dare luce al suo popolo, per guidarlo, affinché il popolo fosse capace di fare le cose che Dio ha comandato.

In ebraico «volto» si dice Panim ed esiste solo al plurale, ma non è da intendersi come il plurale italiano «facce» perché in ebraico è un plurale di indefinibilità ed esprime pertanto un concetto singolare indefinito, come indefiniti sono i lineamenti dell’unico viso.

È come dire che tutti i nostri volti possono diventare riflessi dell’unico volto di Dio. Volto in greco si dice prosopon e viene usato dai teologi cristiani per definire il concetto stesso di «persona». Tu guardi un volto e vedi una persona.

Ma attenzione lo stesso termine prosopon significa maschera, sì, ovvero la declinazione finta dello sguardo, perché la maschera nasconde, la maschera fa vedere qualcosa che non è vero, camuffa i lineamenti.

È anche quello che accade nel vangelo: ci sono volti, ma ci sono anche maschere. Per un verso Gesù accompagna il cieco a vedere gradualmente il suo vero volto, c’è tutta una progressione, come era già avvenuto per la Samaritana: il cieco comincia a vedere Gesù come uomo (v.11), poi vede in lui un profeta (v.17), dopo lo riconosce come uno che viene da Dio (v.33) e infine fa la sua professione di fede e afferma di vedere in lui il Figlio dell’uomo (v.35ss).

Il cieco piano piano arriva a vedere il volto di Gesù a partire dalla sua grave condizione di invalidità, condizione che non era ritenuta degna di incontrare Dio, perché il cieco, lo storpio e lo sterile erano considerati maledetti perché peccatori! Se stai male la colpa è tua: o tu hai combinato qualcosa o comunque i tuoi genitori!

Pensate un poco che modo grezzo di risolvere il problema del male: dare la colpa a qualcuno. Scaricare la colpa parrebbe un sollievo, ma in realtà uccide il volto dell’altro e il volto stesso di Dio ne esce sfigurato.

Queste sono le maschere che appunto Gesù viene a smascherare: sono coloro che presumono di sapere tutto, sono sicuri di vederci bene e dicono con convinzione: Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore(v.24). E poi ancora al v.31: Noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori. Sono le maschere che pretendono di essere i guardiani di Dio e invece lo riducono a un tiranno spietato sempre pronto a punire e a castigare.

Ebbene cosa fa Gesù? «Nel Vangelo il primo sguardo di Gesù non si posa mai sul peccato, ma sempre sulla sofferenza della persona» (J. B. Metz). Ecco il vangelo, la buona notizia: se vuoi vedere il Padre bisogna vedere Cristo e per vedere Cristo impara a vedere la sua passione per l’uomo e la sua «passione» di uomo.

Infatti al culmine della quaresima, celebrando la Pasqua, avremo in Cristo una visibilità completa di Dio: nel momento di massima ostensione della sua donazione all’uomo, cioè con la sua passione, morte e resurrezione. Allora tutta la rivelazione che da Mosè in poi non pensava mai si potesse vedere Dio viene portata a pienezza, perché in Gesù non solo si può vedere Dio senza morirne, ma si può toccarlo sino a farlo morire!

E così sempre Dio si fa vicino a noi nel volto dell’altro, Gesù si rende presente nel volto di chi è vicino a noi e il volto dell’altro ci interpella. Il filosofo Lèvinas ha delle parole straordinarie per dire che lì, nel volto, è racchiuso il segreto supremo della vita: nel volto che abbiamo di fronte e che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi.

Così egli scrive: «Quando mi riferisco al volto, non intendo solo il colore degli occhi, la forma del naso, il rossore delle labbra. Fermandomi qui io contemplo ancora soltanto dei dati; ma anche una sedia è fatta di dati. La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia».

Secondo Lèvinas il pensiero occidentale è egologia, primato e prevaricazione dell’io nei confronti dell’altro, cioè annullamento di ogni differenza nell’universalità dell’essere. E lo vediamo come continua a imperare questo pensiero tirannico!

A maggior ragione allora, la nostra responsabilità è storica: oggi molti amano indossare maschere per non mostrare il proprio volto agli altri, altri non guardano il volto dell’altro e lo riducono a uno stereotipo, a una caricatura… mentre noi vogliamo imparare a leggere questo libro che è il volto di ogni essere umano.

Ieri a Monza papa Francesco ha detto: «Ci fa bene ricordare che siamo membri del Popolo di Dio! Un popolo formato da mille volti, storie e provenienze, un popolo multiculturale e multietnico. Questa è una delle nostre ricchezze. È un popolo chiamato a ospitare le differenze, a integrarle con rispetto e creatività e a celebrare la novità che proviene dagli altri».

«Un popolo che non ha paura di abbracciare i confini, le frontiere; è un popolo che non ha paura di dare accoglienza a chi ne ha bisogno perché sa che lì è presente il suo Signore».

Così papa Francesco ha portato in mezzo a noi la semplice parola del Vangelo, una parola viva, puntuale, concreta. Prima ancora delle prediche, dei discorsi, osserviamo i suoi gesti: incontra persone ordinarie, visita le case di periferia, guarda in faccia i suoi preti, i ragazzi, i carcerati… sempre alla ricerca dei volti e noi a cercare il suo volto per attingervi un poco di luce e di speranza.

Mi ha colpito molto quanto ha detto ai preti e ai consacrati in duomo, quando ci ha invitato a guardare – sempre di sguardi si tratta – alla modernità, al nostro tempo non con rassegnazione o con stanchezza, ma come un’opportunità, un’occasione per educarci al discernimento e alla cultura della diversità, dell’unità nelle diversità.

Ebbene siamo il popolo dai mille volti, volti che cercano il volto di Dio, e questo è un processo che non finirà mai, perché non potremo mai arrivare a dire di possederlo una volta per tutte, ma ogni volta, ogni volto è un dono e una impellente responsabilità che ci interroga e ci inquieta.

L’amicizia con Cristo fa verità nelle nostre vite e ci libera dalle maschere. E sempre dal Cristo impariamo a lasciarci raggiungere dalle domande scritte nei volti di chi incontriamo e dalla responsabilità che suscitano soprattutto se nella prova, nella fatica, nella malattia, nel disagio…

Dovremmo superare anche la tentazione di rinchiudere i volti nelle nostre diagnosi scientifiche… penso a tante situazioni complesse dove ogni scienza, la psicologia, le pedagogia, la neuropsichiatria… mettono un pezzo di comprensione, ma nelle sfumature dei volti, nelle pieghe delle rughe e nelle screpolature delle ferite… c’è sempre una scintilla di Dio.

(Es 34, 27-35,1; 2Cor 3,7-18; Gv 9,1-38)