IV DOPO L’EPIFANIA - Mc 6, 45-56


Vorrei anzitutto sgombrare il campo da un equivoco che fa della barca sul lago di Gennèsaret la navicella della Chiesa sbatacchiata dalle onde e dai marosi del mondo. Qualche scrittore cristiano la pensava come l’arca di Noè, tutta ben impeciata all’esterno per evitare qualsiasi infiltrazione d’acqua e qualsiasi contaminazione col mondo!

Siccome è il particolare che fa la storia, vi inviterei a osservarne alcuni in questa pagina di Vangelo che probabilmente ci dirà un’altra storia. Sì, perché un’altra storia è possibile quando ci rendiamo conto che siamo tutti sulla stessa barca, tutti.

Anzitutto al v.45 si dice che Gesù costrinse subito i suoi discepoli a salire sulla barca, congedò la folla e se ne andò sul monte a pregare.

Ma come? Gesù ha appena sfamato cinquemila uomini moltiplicando i cinque pani e i due pesci e la folla – come dice il vangelo di Giovanni – vuole farlo re, perché non c’è come chi risolve la paura della fame che può essere il capo, e lui cosa fa? Spedisce subito i suoi sulla barca e lui si ritira sul monte a pregare, da solo.

Chissà cosa avremmo fatto noi invece per gestire un successo del genere! Cosa farebbe il parroco o il vescovo per gestire un uragano di applausi: quante riunioni, quante energie, quante risorse e pensieri verrebbero finalizzati e concentrati nello sfruttare al massimo un così grande consenso!

Gesù è sconcertante, ha un comportamento brusco e deciso, al punto che costringe, notate bene il verbo, come se dovesse allontanare da sé un pericolo: lui e i discepoli devono andare via. Perché?

Perché non godere l’ebbrezza del successo, perché non assaporare l’adrenalina dell’essere applauditi? Perché non trovare conferma di quello che siamo nel riconoscimento che ci viene dagli altri?

Perché no, perché paghi un prezzo altissimo: perdi la libertà di essere quello che sei. Oggi sei in cima alla classifica, provi l’ebbrezza e la vertigine di stare in alto e di volgere uno sguardo compiaciuto a chi sta dietro… ma è difficile mantenere la posizione. Non ti illudere, entri dentro una spirale vertiginosa e vorticosa che ti impedirà di essere davvero te stesso per inseguire costantemente quello che i tuoi fans o i tuoi likes vogliono che tu sia.

Gesù va sul monte a pregare. Silenzio e solitudine, dice la tradizione, sono rispettivamente il padre e la madre della preghiera. Proprio ciò che rifuggiamo, il silenzio e la solitudine, sono la condizione per stare con Dio e ritrovare così la nostra vera consistenza, la nostra dimensione, la nostra dignità.

Ed è dal monte che, altro particolare, Gesù osserva la fatica dei suoi: remano, remano… ma nulla possono contro il vento contrario! Com’è breve il passaggio dalla gloria alla dannazione, basta poco.

Almeno l’altra volta (al cap.4,35) lui era sulla barca certo dormiva, ma è bastato svegliarlo e la tempesta si calmò. Invece oggi ci ha lasciati soli sulla barca, lui non c’è. E noi lì a remare aggrappati a quel legno che ci fa sentire ancora vivi. Remiamo, facciamo fatica, la fatica della fedeltà quotidiana… ma il vento è invincibile.

E Gesù dall’alto del monte, mentre prega, vede la fatica dei suoi. La preghiera se è vera, non è mai evasione, fuga dalla realtà né da se stessi, né dagli altri, anzi la preghiera apre gli occhi, spalanca la vista e mette in moto le gambe. Infatti Gesù vede e cosa fa?

Anche qui notiamo un particolare sorprendente: andò verso di loro camminando sul mare e voleva oltrepassarli. Beh, chi cammina sul mare lo sappiamo è solo uno, noi al massimo ci passiamo in mezzo – come ricordava il libro di Giosuè -, noi attraversiamo il fiume, passiamo in mezzo all’acqua come nell’esodo le tribù attraversarono il mar Rosso. Ma camminarci sopra non è umano: chi può camminare sul mare? Possiamo fare dei blocchi navali, creare delle paratie… ma la metafora dell’acqua dice le forze ingovernabili, profonde, imprevedibili della vita.

I geroglifici aztechi disegnano la terra come sospesa sulle fauci spalancate di un mostro dall’aspetto del caimano pronto a inghiottire tutto e tutti… il mito ci racconta della forza dell’imponderabile. Sì siamo proprio tutti sulla stessa barca, anzi siamo noi quella barca che solca le onde di un mare imprevedibile e che fa paura perché potrebbe inghiottirci da un momento all’altro.

Perché Gesù vuole passare oltre? Non gliene importa di noi? Non vede che siamo in difficoltà? Siamo forse trasparenti? Ha forse dell’altro da fare di più urgente che non soccorrerci?

Il gesto di Gesù provoca il grido dei discepoli: i discepoli danno voce alle loro paure, gridano! Sì, l’apparente assenza di Dio, il voler andare oltre di Gesù, ci costringono anzitutto a dar voce, a dare un nome alle paure che ci abitano. Sono tante e non penso a quelle paure che ci fanno avvertire un pericolo e sono importanti da ascoltare, penso a quelle paure inconfessabili che ci abitano e che facciamo fatica a riconoscere, come la paura di sbagliare, la paura del dolore, la paura dell’insuccesso, la paura di non farcela, la paura per il futuro dei nostri figli, la paura del domani, del giudizio degli altri…

Ecco queste paure vanno gridate: chiamiamole per nome, perché allora Gesù è in grado di dirci che si può andare oltre. Sì anche le paure possono essere oltrepassate, superate… ma come?

Anzitutto chiamandole per nome e non tenendole soffocate dentro di noi, farle diventare grido, invocazione, poesia, arte, letteratura… penso al famoso quadro di Munch il “Grido”, la cui origine egli stesso descrive così: «Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto a una palizzata. Sul fiordo nero-azzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura… E sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura» (1895).

Il grido è l’esplosione della paura che abita l’artista e lo fa tremare. È il grido della natura umana, del creato, della vita che non vuole morire.

Superare la paura non è possibile da soli: nel quadro di Munch gli amici non sentono il grido di paura dell’amico. Gesù sente il grido e dice ai suoi: Io sono, coraggio, non abbiate paura! Qualcuno ha contato che nella Bibbia per 365 volte si ripete questo invito: Non abbiate paura! Ma il non avere paura dipende da quell’Io sono, che dice che Dio è lì, come ieri era con Mosè per liberare la sua gente, oggi è presente con Gesù.

Il mare rappresenta la morte, se vai sotto muori e in tutta la nostra vita c’è un vento di paura che ci fa terrore. Non vogliamo morire! E io remo, remo, remo contro la mia paura, mi agito, faccio, brigo… e addirittura l’umanità è capace di tutto: crede di salvarsi buttando a mare il sovrappiù, gli scarti… come se alleggerendo il peso della barca qualcuno si possa salvare.

Inganno e infamia: siamo tutti sulla stessa barca e la morte è vinta con Gesù, se stai con lui allora puoi andare oltre, attraversare e superare la morte. La paura rende pazzi, diceva papa Francesco e ci fa ammalare di sclerocardia, dice Gesù e crea dei mostri!

Sì così annota Marco: non avevano compreso il fatto dei pani e il loro cuore era indurito. E quando il cuore è indurito diventi forte con i deboli e vigliacco con i forti. Sei un mostro.

Non perdere la relazione col Padre, con Dio: se sali il monte della preghiera, in solitudine e silenzio, diventi capace di coraggio nell’andare oltre la paura perché impari a vedere le cose da un’altra prospettiva che non è quella dell’abisso, ma dell’orizzonte aperto dall’Eterno e verso il quale puoi andare nella compagnia di Gesù.

E da questa prospettiva, concediamoci un ultimo particolare, guardiamo gli altri con una cura e un’attenzione unici. Osserviamo la scena: appena scesi dalla barca Gesù e i suoi sono letteralmente sommersi da malati, da poveri, da persone cui basta poter toccare almeno il lembo del mantello.

Il lembo, lett. la frangia, è un pezzo del mantello e rimanda alla persona che lo indossa, così anche Gesù come ogni pio ebreo, aveva alla sua veste una frangia dotata di un filo color viola che doveva richiamare la fedeltà a Dio (Nm 15,38-41).

Per coloro che attraversano la tempesta della malattia, della povertà, dell’emarginazione anche solo toccare un lembo, la frangia del mantello di Gesù, vale a dire anche solo un lembo della vita di Cristo, anche solo un briciolo di quello che lui è stato… può salvare!

E penso che, come Chiesa, questa sia una nostra responsabilità: non vogliamo essere la navicella preservata dalle acque della storia, piuttosto possiamo far toccare a chi fa fatica, a chi ha paura, a chi è disperato, alle persone che incontriamo e che abbiamo intorno… anche solo un lembo della vita di Gesù, una sua parola, un suo gesto.

Non chiediamo professioni di fede, non domandiamo di partecipare a liturgie solenni, e tantomeno esigiamo tessere o sollecitiamo appartenenze. Basta favorire il toccare anche solo una frangia del mantello di Gesù, basta ascoltare una sua parola, un suo gesto che ci donano la forza e il coraggio di andare oltre le paure.

(Gs 3,14-27; Mc 6,45-56)