V DOPO L’EPIFANIA - Gv 4, 46-54


Ad avere uno sguardo che abbraccia nel loro insieme le tre pagine della Bibbia che abbiamo ascoltato, emerge una parola che non è esplicitata nei testi, ma li attraversa tutti ed è una costante dell’agire di Dio nel Primo testamento che continua nel comportamento di Gesù, e questa parola è “inclusione”.

L’agire di Gesù è inclusivo perché non era affatto dovuto che ascoltasse un funzionario del re Erode Antipa[1], un ufficiale angosciato per il figlio che sta per morire… Gesù ha probabilmente di fronte un pagano, facilmente odiato e detestato per le angherie con cui era solito trattare la gente semplice e per gli ordini che doveva eseguire. Eppure Gesù accoglie e ascolta anche il dolore di questo uomo.

Così come Isaia dà voce all’immagine di un Dio “inclusivo” che vuole radunare intorno a sé “tutte le genti e tutte le lingue”. Tutti, Dio vuole proprio tutti i popoli riuniti in una grande convocazione universale.

Paolo stesso nel cap.4 della lettera ai Romani riconosce che la fede di Abramo è la fede del padre di tutti, vale a dire è una fede inclusiva.

Il che si presenta come un tema interessante in quanto siamo abituati a pensare e a vivere la religione come agente di divisione, di separatezza: tu sei cristiano, tu sei buddista, tu sei musulmano… e fra noi le differenze diventano ben presto delle distanze, fino al punto che risulta del tutto normale pensare che in qualche modo la nostra religione debba essere difesa dagli altri.

A ben guardare anche nella Bibbia c’è una dialettica sofferta tra l’identità e l’universalità, tra il popolo eletto e gli altri popoli… tensione che c’è anche dentro di noi che dobbiamo imparare a tenere insieme il dovere di custodire la fede e il rispetto per le altre religioni. Come essere discepoli di Gesù che ci chiede di annunciare il Vangelo e convivere con le altre fedi?

Il discorso è complesso e quello che possiamo dire oggi alla luce della Parola che abbiamo ascoltato è l’invito ad assumere un’altra prospettiva oltre a quella della mediazione, dell’armonizzazione, del cercare di andare d’accordo… ed è l’invito ad assumere il punto di vista addirittura di Dio che si è reso palese in Gesù: vale a dire l’inclusione.

La volontà di Dio è inclusiva dice Gesù compiendo il secondo segno a Cana, meno famoso del primo, ma altrettanto importante. Gesù poteva rimbrottare l’ufficiale per la sua violenza, per le umiliazioni che sicuramente deve aver inflitto a tanta povera gente… o più semplicemente poteva accampare un qualche pretesto per non dar seguito alla sua richiesta… e così avrebbe segnato la distanza, l’esclusione.

Gesù invece non agisce in base alla legge della reciprocità, non si comporta per difendere i valori in cui crede e che va predicando segnando il confine con l’altro, ripagando il violento con la stessa moneta … ma proprio perché sa che la volontà di Dio è inclusiva, allora si prende cura del dolore e della sofferenza anche di colui che causa sofferenza e dolore agli altri!

Come cambia l’esito delle cose l’atteggiamento inclusivo: quell’ufficiale, dice Giovanni, credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. Quell’uomo senza alcuna evidenza, ma sentendosi accolto dall’atteggiamento di Gesù si fida della sua parola e si mette in cammino.

Questa è dunque la prospettiva di Dio, una prospettiva inclusiva. Perché se escludi muori o fai morire, se includi e stabilisci rapporti di fraternità e di umanità potrai vedere cieli nuovi e terra nuova, come dice Isaia, ovvero un futuro diverso per tutti i popoli.

È l’inclusione la cifra della nostra vita spirituale e sociale? È questa la volontà di Dio che cerchiamo? Non sembra proprio, tutt’al più appare in qualche élite culturale, in qualche gruppo del tutto marginale… oggi domina e ha grande seguito la logica dei muri, delle identità, dell’espulsione, come spesso dice papa Francesco, che non favorisce una vita sociale più umana e serena, ma crea e moltiplica gli scarti umani da gettare, da ignorare, da tenere lontano.

È assolutamente sconvolgente come sia diventato oggi del tutto normale scartare ed escludere qualcuno. È un atteggiamento acritico, quasi un riflesso condizionato tanto si è incistato nelle nostre menti. Ma direi di più, i cambiamenti sociali degli ultimi decenni vedono un continuo processo di espulsione delle persone dal lavoro, dallo spazio sociale, geografico, ma anche dai diritti… e in nome di che cosa? Da parte di chi?

Da chi ha il potere di farlo ovviamente. Vale a dire da chi è provvisto di questo potere in base ai propri scopi. Basterebbe prestare un minimo di attenzione all’analisi dei tassi di disoccupazione, della distribuzione delle ricchezze e al numero di persone coinvolte nei flussi migratori per comprendere che oggi non siamo semplicemente di fronte al vecchio concetto di esclusione sociale che ha visto molti di noi impegnarsi negli anni addietro, magari ridimensionandola o perfino eliminandola.

Siamo di fronte a vere e proprie “formazioni predatorie”[2] sorte allo scopo di consentire soltanto a una piccola parte della popolazione di arricchirsi. Formazioni complesse, vere e proprie capacità sistemiche, di mercati, di tecnocrazie finanziarie, di strumenti legali e contabili, di funzioni altamente specifiche abilitate dai governi… che costituiscono un sistema complesso intento ad espellere.

Non più, dunque, i magnati con cilindro, sigaro e bastone, ma processi complessi, dove la complessità fa spesso il paio con la brutalità degli esiti e concorre a determinare l’invisibilità delle cause, perché quanto più complesso è il sistema, tanto più difficile è risalire alle responsabilità.

Noi abitiamo e respiriamo una cultura dello scarto, dell’espulsione, anzi una sottocultura che ha consumato l’uomo contemporaneo, fino a renderlo indifferente e autoreferenziale, fino a farci considerare come immodificabili le grandi ingiustizie del mondo globale: a partire dalla più grande di tutte, quella per cui i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, aumentando in misura esponenziale, laddove eravamo ormai abituati ad un benessere sempre più largo e sempre in crescita.

Gli scartati dice Papa Francesco sono gli ultimi, sono le vittime delle guerre, sono le 400mila persone uccise soltanto in Siria da quando è esploso il conflitto in questo paese, o le migliaia sepolte nel Mare Mediterraneo, trasformato in un cimitero.

Sono scarti le donne che subiscono violenze e discriminazioni, tutti i giorni e di ogni tipo; sono scarti i giovani che non trovano lavoro e non lo cercano più, scoraggiati e sconfitti.

Sono scarti le persone più fragili, quelle con vite difficili se non impossibili: anziani, malati…

Sono scarti gli uomini, le donne, i bambini, le famiglie, le comunità, delle periferie del mondo, periferie geografiche, sociali ed esistenziali. Ed è uno scarto chi sta scontando nel buio di un carcere la sua pena.

Eppure, non ci avevano promesso un mondo nel quale, grazie alla tecnologia, alla globalizzazione, al progresso economico, alle nuove opportunità, gli ultimi, sarebbero almeno diminuiti?

Ecco la “grande bugia” nella quale viviamo indifferenti, gelosi custodi di un benessere drogato e squilibrato: nel mondo gli ultimi aumentano e continuano ad aumentare.

E noi zitti, testa bassa, a fare i conti solo e sempre con qualche pezzetto dei nostri privilegi che sentiamo a rischio.

Zitti in un pianeta dove in una stanza si spreca e nell’altra si crepa, come ricordava madre Teresa di Calcutta con la sua dolce ma rigorosa indignazione.

Cosa possiamo fare? Cosa può la fede di fronte a un mondo così complesso?

Domani ricordiamo l’ingresso di Carlo Maria Martini come arcivescovo di Milano. Era il 10 febbraio 1980 quando il 53enne gesuita entrò solennemente in diocesi con un gesto che è ormai passato alla storia: camminando tra la gente per le vie della città, con il Vangelo tra le mani, fino ad arrivare in una piazza Duomo stracolma.

Erano gli anni del terrorismo e della violenza, due giorni dopo il suo ingresso venne assassinato alla Sapienza di Roma Vittorio Bachelet vice presidente del CSM da parte delle Brigate Rosse, di lì a poco sarebbe scoppiata Tangentopoli mettendo a nudo un sistema di corruzione spaventoso che veniva da lontano… e così ricordando quel giorno mi sembra di rivivere la scena evangelica per cui di fronte al grido di tanti: La città sta male, la società soffre violenza, l’umanità sta morendo… Martini cosa fece? Credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino.

Credette alla parola del Vangelo e ce lo ha testimoniato con un amore appassionato nel camminare insieme a tutti noi per oltre vent’anni con lo sguardo di una fede inclusiva, capace di costruire una città inclusiva.

Rinnoviamo con coraggio la nostra fiducia nel Vangelo e mettiamoci in cammino. Le radici vanno bene per gli alberi, diceva George Steiner[3], e io adoro gli alberi, ma preferisco di gran lunga le gambe perché ci mettono in cammino per prenderci cura, per includere, per sperare i cieli nuovi e la terra nuova.

(Is 66,18-22; Rm 4,13-17; Gv 4, 46-54)

[1] Tetrarca della Galilea, residente a Tiberiade, non lontano da Cafarnao. La distanza tra Cafarnao e Cana di Galilea è di cica 26 Km.

[2] Saskia Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino 2014.

[3] Accademico francese morto il 3 febbraio 2020.