VI DOPO PENTECOSTE - Mt 11, 27-30


Se domenica scorsa era Abramo ad avere un cuore attento ad ascoltare la parola di Dio, oggi – e compiamo un salto storico di qualche centinaio di anni –  è Dio che ascolta il grido del suo popolo (Es 3, 1-15). Siamo in Egitto dove gli ebrei del tempo di Mosè sono in condizione di schiavitù, certo una schiavitù un poco particolare perché pur costretti a compiere lavori che gli egiziani non volevano fare, tuttavia gli ebrei non erano proprietà di altri perché non erano schiavi acquistati con denaro, ma avevano la propria casa, potevano sposarsi, avere figli… la questione era che si trattava comunque di immigrati cresciuti di numero e d’importanza, così da costituire un potenziale pericolo, una minaccia di tipo politico, etnico e sociale. Di conseguenza il faraone aveva avviato una politica repressiva, di controllo delle nascite, di inasprimento delle condizioni di lavoro…

Da qui il grido che sale dalla sofferenza e dalla fatica insostenibile ormai da parte di quella povera gente.

Questo «grido» di dolore ricorre tante volte nella Bibbia, come ricorre frequentemente nella storia del mondo ed è la cifra di tutta l’infelicità umana. La condizione stessa degli ebrei è un grido, ma come è il grido dei palestinesi oggi, come è il grido delle popolazioni martoriate del medio oriente, come è anche il grido dei somali, degli eritrei…

Ed è un grido talmente intenso che è capace di attraversare i cieli fino a raggiungere il cuore di Dio. Dio ascolta questo grido che non è formalmente una preghiera, perché l’uomo nel massimo dell’infelicità è in rapporto con Dio ma non attraverso la preghiera, piuttosto attraverso la disperazione, le lacrime…

Anzi, c’è chi soffre anche senza gridare, perché non sa gridare… nel senso che questo grido non è necessariamente una voce, non è un insieme di suoni che esce dalla bocca, è un grido muto, ma al tempo stesso più forte di qualsiasi verso. Anzi dirò di più è una condizione che si leva anche da persone che non credono in Dio, è un grido che sale comunque a lui perché Dio non è indifferente, non volta la faccia dall’altra parte.

E cosa fa Dio quando gli arriva il grido di dolore? Dio, come fosse un essere umano, ricorda. Ricorda la promessa fatta ai patriarchi perché le promesse che riguardano il popolo le aveva fatte ad Abramo e a Giacobbe, Dio ricorda la sua alleanza. Ed è così che si presenta a Mosè: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe… Dio si presenta a Mosè collegando il proprio incontro con i padri. I maestri fanno notare come non si dica il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe… bensì il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe. La differenza è per sottolineare che Dio aveva un rapporto diretto con i patriarchi, personalmente con ognuno di loro. L’incontro con Dio non era un bene trasmissibile per eredità, erano incontri distinti, personali.

Ora per Mosè l’incontro avviene intorno a un roveto che brucia, che arde, ma senza consumarsi. I maestri d’Israele si sono chiesti perché Dio tra tutti gli alberi e le piante si manifesti proprio in un roveto e la risposta è che Dio stesso si manifesta tra le spine perché soffre con Israele (Rashi).  L’esperienza che Mosè fa di Dio è di un Dio che soffre con la sua gente, che sente sue le sofferenze del suo popolo.

Ed è quello che annuncia il vangelo di Matteo (11, 27-30) quando ci dice di Gesù che si prende cura dei pesi e delle oppressioni della sua gente, così come si prende cura delle nostre fatiche e delle nostre sofferenze: Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi.

Mosè non si spaventa di avvicinarsi a un Dio così, che brucia tra le spine. Non è spinto da curiosità, la curiosità è madre della scienza e allora avrebbe indagato le cause di un’autocombustione in pieno deserto… ma il suo è stupore e lo stupore è il padre della sapienza, infatti Mosè imparerà da questo incontro una nuova sapienza di vita, anzi cambierà vita.

A differenza di Abramo che fin dall’inizio ha già chiaro lo scopo della sua vocazione, anche se ci siamo resi conto essere assolutamente generica (un popolo, una terra e una Parola su cui affidarsi), con Mosè le cose vanno diversamente. Ha dovuto fare prima quarant’anni alla corte del faraone, poi dopo l’uccisione dell’egiziano che maltrattava un altro ebreo, è fuggito quarant’anni in Madian dove fa l’esperienza del roveto e da lì altri quarant’anni nel deserto alla guida del suo popolo verso la terra della promessa.

Noi oggi cogliamo Mosè proprio nel momento centrale della sua vita: lui che era abituato alla reggia del faraone, dove aveva ricevuto una formazione elitaria, pensa di fare giustizia da sé e dopo aver commesso quell’omicidio è costretto a fuggire in Madian a fare il pastore.

Invece di stordirsi con tante occupazioni, poteva fare il commercio che avrebbe potuto svolgere con grande profitto personale e dimenticare del tutto l’insuccesso in Egitto (cfr. Gregorio di Nissa, Vita di Mosè), Mosè scelse invece un’occupazione solitaria e ritirata. Lo immaginiamo nel silenzio del deserto di Madian solo con le sue greggi, chiedersi per giorni e giorni il perché della sua sofferenza, domandarsi come poter salvare la sua gente, che senso avesse tutto ciò…

In questo periodo di macerazione Mosè fa l’esperienza della purificazione del suo cuore, del suo modo di pensare e di fronte al roveto dove Dio arde in mezzo alle spine, si rende conto che mentre pensa di farsi giustizia con la spada, per quella strada non se ne viene a capo, anzi si dà il via a una spirale di violenza inaudita….

Quando scopre che è altra la strada, allora è pronto per ricevere in modo preciso la vocazione e la missione che il Signore gli affida.

Quel luogo per lui maledetto, perché terra del suo esilio, diventa ora terra santa. Deve togliersi i sandali come in un luogo sacro. La sua sofferenza è la terra santa nella quale entra in un rapporto diverso con la vita, con gli altri, con Dio. Occorre che si tolga i sandali e riconosca con somma umiltà l’insuccesso dei suoi progetti. Quando si accorge e si rende conto di tutto questo, allora è il momento in cui si sente dire: Ora va’, io ti mando a liberare il mio popolo!

Ecco il primo teologo della liberazione: Mosè è il primo ad essere liberato. È il primo teologo non in senso accademico, ma nel senso più vero. Fino a quel momento aveva pensato e agito come se toccasse a lui interessarsi del popolo, come se tutto dipendesse dalle sue iniziative, scopre solo ora, dopo due lunghi periodi di infatuazione personale, di disillusione, di amarezza che la salvezza viene da Dio, che non è lui a preoccuparsi del popolo, ma è lo strumento delle preoccupazioni e delle premure di Dio.

Questa caratteristica non appariva in Abramo, il quale era un individuo solitario, anche se ha dato origine a una stirpe. La vicenda di Mosè mostra la profonda identificazione di un chiamato con le persone che il Signore gli pone vicino. Mosè non vivrà mai più separato dal destino del suo popolo. Quel Dio che secondo il libro della Genesi era apparso ad Abramo e poi a Isacco e a anche a Giacobbe, nel libro dell’Esodo diventa il Dio che cammina insieme con il suo popolo e da quel momento la storia di Dio e la storia di Israele camminano insieme.

Il libro stesso dell’Esodo proprio per questa peculiarità per la quale Dio si compromette con la storia del mondo, diventa il paradigma di ogni istanza e movimento di liberazione. Anche perché, e ne troviamo conferma anche nel nostro tempo, l’uomo sarà in lotta fino alla fine dei tempi, e la sua liberazione non cesserà mai (Jankélévitch).

Cosa ci insegna Mosè, il primo teologo della liberazione?

Se nella prima fase della sua vita poteva immaginare di compiere una liberazione alla stregua di quel che aveva imparato nella casa del faraone, cioè con la forza e la violenza, l’aver saputo ascoltare il suo proprio dolore, l’aver incontrato un Dio nel roveto, un Dio che soffre con il suo popolo… ha insegnato a Mosè a sentire la storia partendo dal suo rovescio, cioè partendo dalle sue vittime, perché ascoltare il grido e vedere la sofferenza che attraversa la storia del mondo non è un esercizio neutrale, ma implica la necessità di rifare questa storia.

Il problema è che mancano i «Mosè» capaci di ascoltare il grido che sale dall’umanità e che siano disponibili alla liberazione voluta da Dio, perché il roveto di Dio arde ancora oggi, arde nei paesi schiacciati dalla crisi economica, arde nei paesi dove si uccide in nome di Dio, così come arde nei cuori che cercano giustizia, pace, libertà. Ancora oggi il roveto continua ad ardere e noi non voltiamo la faccia dall’altra parte, ma guardiamo a questo mistero con l’atteggiamento di chi si inginocchia di fronte alla sofferenza degli altri, di chi toglie i sandali della sua sicumera, della sua arroganza e fa come Gesù che dice: Imparate da me che sono mite e umile di cuore.

Anche oggi la nostra umanità ha bisogno di liberazione: liberazione dalla tirannia del denaro, dalla schiavitù della violenza, dalla paura degli altri… liberi per amare, per questo anche oggi si cerca chi come Mosè indichi delle strade, delle possibilità altre, sentieri nuovi.

Questo sarà possibile nella misura in cui anche per noi le due grandi dimensioni quali l’ascolto della Parola e l’impegno storico siano inesorabilmente intrecciate. Entrambe sono strade sulle quali si incontra Dio e l’uomo. Questa metodologia è la nostra spiritualità (Gutierrez) ed è il cammino della liberazione dai faraoni moderni.