PENTECOSTE - Gv 14, 15-20
Eccoci a Pentecoste. Non è una domenica come le altre. Non è la fine del periodo pasquale, col ritorno alla liturgia ordinaria. La Pentecoste è il frutto maturo della Pasqua. È la festa della pienezza della vita.
A Natale Dio è un bel bambino, sospendiamo i nostri litigi, ci facciamo qualche regalo, con le musiche adatte… tutti più buoni. A Pasqua è quasi primavera: Gesù viene ammazzato dalle autorità ebraiche e dall’impero romano, ma poi è risorto… quindi siamo tranquilli. Ci sfugge il fatto che, sapendo di morire, aveva promesso ai suoi – e anche a noi – di inviarci il suo Spirito per farci vivere la sua vita.
Se fosse risorto e tornato nei suoi cieli, là da dove era venuto, la nostra storia con lui sarebbe finita a Pasqua. Invece, Dio non è lassù, chissà dove, fuori di noi, dopo aver fatto una incursione quaggiù per dirci alcune belle cose, darci la sua legge da rispettare, e poi è tornato laddove non si vede. Lo Spirito di Dio è dentro di noi.
Il profeta Ezechiele aveva promesso il trapianto di un cuore di carne al posto del nostro cuore di pietra. La Pentecoste è la festa di questo trapianto. È la festa più grande della vita cristiana perché il suo spirito è dentro di noi: cioè, il suo sentimento, il suo stile di vita, il suo modo di guardare gli altri e le cose, la sua mentalità, anche se si esprime in tanti e vari modi.
Non solo, la Pentecoste è festa anche per chi non lo sa, perché lo Spirito riempie tutto e tutti i cuori, senza differenze di popoli e religioni, è più grande di tutte le chiese, e ispira il bene in tutti, se sappiamo accogliere questo dono.
Pentecoste ha questo spessore di popolo, di gente. Tutti furono colmati di Spirito santo, scrive Luca nel libro degli atti. Tutti. Poi l’iconografia e la vulgata diffusa fanno pensare che i destinatari siano esclusivamente i Dodici, ma qui si parla dei discepoli nel loro insieme, degli uomini e delle donne che hanno seguito Gesù e che ora sono destinatari di questo dono.
Un dono per il quale una comunità di terrorizzati spalanca porte e finestre; una comunità che dall’essere chiusa nella sua ossessione identitaria passa a parlare le lingue di tutti i popoli conosciuti allora, perché riceve un dono che soffia via la cenere che copre la brace, il fuoco che è dentro il cuore e non sulla testa!
Pentecoste è dono di Dio, è dono delle mani di Dio: ma i piedi dobbiamo muoverli noi! Eppure anche tra noi ci sono coloro che sprangano le finestre, sbarrano le porte. Anche tra noi discepoli ci sono chiusure, paure, resistenze allo Spirito santo.
Però, personalmente sono fiducioso perché per quanto possiamo essere egoisti e gretti… allo Spirito basta una piccola fessura per irrompere nei nostri chiusi cenacoli, nelle fortezze delle nostre paure. Lo Spirito di Dio è invincibile, irresistibile, irrefrenabile: di questo Spirito tutti i discepoli sono colmati. Tutti.
E questo anzitutto riguarda la Chiesa. Tutti furono colmati di Spirito Santo, scrive Luca. Gli fa eco Paolo nella lettera ai Corinti: A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune. Conclude Gesù parlando dello Spirito che dona ai suoi: Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi.
Dov’è la chiesa? Là dove si trovano i preti o là dove c’è lo Spirito che anima una comunità che prega, ama e serve? Non c’è dubbio che siamo ingessati nel modello tridentino di chiesa fissato sull’istituzione, sul clero… ma la cosiddetta “crisi delle vocazioni”, non è la crisi dei preti che vanno diminuendo numericamente, è la crisi di una Chiesa che pensa di essere tale solo laddove c’è un prete. Il nuovo paradigma della Pentecoste ci chiede di ripartire non dai ruoli o dalle funzioni, ma dai doni che lo Spirito ha già immesso nelle comunità e che sono appunto soffocati dalle nostre strutture storiche sclerotizzate.
Lo Spirito è donato da Gesù a tutti i battezzati, nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Siamo stati battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare.
Come dice papa Francesco: Il clericalismo tende a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. «Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il Santo Popolo fedele di Dio. Siamo, come sottolinea bene il concilio Vaticano II, il Popolo di Dio, la cui identità è “la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio” ( Lumen gentium, 9)» (Lettera al cardinal Ouellet, 19 marzo 2016).
Dobbiamo avere il coraggio di passare dalla teoria alla prassi per «riconoscere che il laico (…) ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede. I ritmi attuali sono tanto diversi (non dico migliori o peggiori) di quelli che si vivevano trent’anni fa! “Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane” (Evangelii gaudium, n. 73).
Davvero dobbiamo cambiare paradigma: non possiamo pensare di andare avanti guardando la storia dallo specchietto retrovisore, rimanendo rinchiusi in un’armatura dogmatica, rigorista e rituale che evita gli interrogativi della complessità del mondo… questa sì è mancanza di fiducia nello Spirito Santo.
In secondo luogo, lo Spirito santo non viene solo a vantaggio della Chiesa e dei cristiani. Viene per il mondo e il mondo, come diceva Yves Congar, è la salute della chiesa. Perché la tentazione della chiesa, che era già della comunità primitiva è quella di rimanere nella sala del piano superiore, nella quale era tanto bello stare perché lì c’era stata l’ultima cena, lì avevano condiviso speranze e attese con Gesù… mentre lo Spirito sospinge la comunità fuori da quella stanza perché vada sulle strade della città, nelle piazze di Gerusalemme.
Il dono dello Spirito che Gesù effonde ha come orizzonte ultimo il mondo, la storia umana, la vita di tutti. Mentre molte volte ci si accontenta di fare il bene della chiesa, come se i carismi e i doni siano a beneficio esclusivo dell’organizzazione ecclesiale. «Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica» (Papa Francesco, Lettera al cardinal Ouellet, 19 marzo 2016).
E oggi nel nostro Paese paghiamo il prezzo di questa mancanza. Succede nella vita politica quello che racconta un antico apologo biblico, tratto dal libro dei Giudici. Un giorno gli alberi si mettono in cammino per cercare uno che faccia loro da re, che li governi. Dapprima incontrano l’ulivo, poi il fico e infine la vite. Tre piante che producono cose buone. Però queste tre piante non vogliono rinunciare ai loro frutti per andare a comandare sulle altre piante.
Allora si fa avanti il rovo che invece accetta con entusiasmo la proposta di diventare re e dice così: «Se in verità ungete me re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra; se no esca un fuoco e divori i cedri del Libano» (Gdc 9,15).
Il rovo offre protezione, ma anche distruzione e violenza. Una volta che ci si affida a lui, che non produce frutti, cominciano anche i guai.
Un apologo di almeno 3 mila anni fa, ma di grande attualità. Non che chi si candida e chi viene eletto sia inevitabilmente il “peggiore”, lo sfaccendato, l’ambizioso o il fannullone, benché chi si appresta a governare l’Italia non abbia costruito qualcosa di proprio eclatante prima di sfondare in politica…
Ci sono sicuramente persone brillanti e generose. In realtà oggi come ieri sembra proprio che siano una percentuale sempre più minoritaria.
La parabola biblica è vera soprattutto in un aspetto: chi ha qualcosa di buono da dare spesso scappa dalla politica anche se chiamato. Gli alberi avevano offerto il potere alle piante capaci di portare frutto. Eppure queste hanno preferito trovare soddisfazione nel proprio ambito. Perché dedicarsi alla politica se è fatta di ombre e se contempla l’utilizzo del fuoco (metaforicamente inteso come cinismo, violenza, lotta spietata)? Perché rovinarsi la vita quando si può offrire un servizio migliore alla comunità restando al proprio posto?
Il racconto biblico non lo dice esplicitamente ma, se osserviamo bene, il rovo diventa re perché i “migliori” o presunti tali si sono ritirati. Schizzinosi e altezzosi. Consci di non avere nulla a che spartire con il rovo – troppo colti, troppo ricchi, troppo nobili – se ne stanno in disparte, finché il fuoco divorerà anche loro.
Il rovo – pianta infestante – sta già dilagando. Lo comprendiamo da come ci rassegniamo a un’idea di società composta da tanti portatori di interessi individuali senza un interesse comune. Lo spirito del cosiddetto “contratto” in fondo è questo: ognuno per sé in una società frammentata, divisa, spezzata, impoverita, dove le fragilità e le vulnerabilità, le povertà e le disuguaglianze non sono condizioni da tutelare, ma colpe da punire e da ignorare. Una società da cui è espunta la solidarietà.
E non serviranno agenti chimici o alchimie dell’ultima ora per contrastare il diffondersi del rovo. Non servono organismi geneticamente modificati.
Lo Spirito di Gesù, lo Spirito santo viene donato a tutti per il bene della città, della società, dell’umanità. Lo Spirito viene donato a piene mani da Dio, ma i piedi e i cuori dobbiamo smuoverli noi.
(At 2, 1-11; 1Cor 12, 1-11; Gv 14, 15-20)