I DOMENICA DOPO PENTECOSTE - Solennità della Santissima Trinità - Gv 15, 24-27


Già tracciando il segno di croce su di noi all’inizio della celebrazione, abbiamo compiuto un gesto molto più eloquente di tante parole che vorrebbero «spiegare» il mistero di Dio, il mistero della Trinità di Dio.

La tradizione teologica ci ha consegnato un vocabolario che si è cristallizzato nel simbolo di Nicea che proclameremo tra poco e che è ripreso dal prefazio quando afferma: Sei un solo Dio e uno solo Signore non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza.

Parole che appartengono a una storia importante del pensiero cristiano, ma che oggi non sembrano dirci molto… di sicuro non ci scaldano il cuore né la mente, perché questi concetti, come bene notava Wittgenstein, sono in realtà prodotto della lingua che usiamo. I Padri della Chiesa che si esprimevano in greco erano legati al mondo linguistico-filosofico greco-aristotelico. Oggi abbiamo bisogno di un linguaggio più vicino e comprensibile per quello che può essere comprensibile il mistero di Dio.

Anche perché abbiamo una responsabilità che la storia esige da noi, quella cioè di rendere conto della nostra fede nel confronto con i grandi monoteismi religiosi del nostro tempo, nel dialogo con l’ebraismo e con l’islam. Cosa significa oggi per noi parlare di Padre, Figlio e Spirito santo? Come possiamo tradurre i termini «natura e sostanza» nel linguaggio contemporaneo? Sono interrogativi importanti che meriterebbero una maggiore riflessione anche da parte nostra.

Cominciamo almeno a tornare sui testi della parola di Dio che possono essere un punto di partenza fecondo. Nel senso che anche noi siamo un po’ come Mosè descritto dal libro dell’Esodo (33,18-23; 34,5-7a) che pretende da Dio una sua manifestazione: Mostrami la tua gloria!

Cosa intende dire Mosè? Siccome è appena accaduto l’evento tragico del vitello d’oro, Mosè sembra voler esigere da Dio una presa di posizione forte e chiara: Fai vedere chi sei, punisci, castiga, umilia!

Cosa risponde l’Eterno?

Due cose. Anzitutto dice il Signore: Non potrai vedere il mio volto… ti coprirò con la mano… e poi vedrai le mie spalle. Il Signore per prima cosa mette una distanza con Mosè, anche se era il suo profeta e Mosè poteva parlare con Dio come si parla con un amico (33,11), ad un certo punto l’Eterno mette le distanze tra sé e il ragionamento di Mosè.

Dio non segue la logica umana, anche se di lui parliamo alla maniera umana e il linguaggio è del tutto antropomorfico: Dio «parla» con Mosè, ma quale voce ha Dio? Dio ha un volto, ma come è possibile che abbia un volto? E poi ha le mani e infatti nasconde con la mano Mosè perché non lo veda… però Mosè potrà vedere le spalle di Dio! Ecco, come ci districhiamo da qui?

Per un verso è chiaro che noi abbiamo le nostre parole per parlare di Dio e non riusciremo mai ad andare oltre il nostro antropomorfismo. Quale linguaggio potremmo usare se non quello che ci è possibile? Ma al tempo stesso la pagina biblica segna la distanza, la differenza, l’alterità di Dio e proibisce appunto di farsi qualsiasi immagine perché ogni immagine è anche una maschera. Qui sta il travaglio di tutta la domanda umana.

Se penso alla moltitudine di persone che prima di noi si sono affacciate al mistero di Dio e hanno vissuto questa intimità e al tempo stesso questa irrimediabile estraneità con Lui… c’è da avere le vertigini! Viene da pensare che il soffio di Dio insufflato nell’Adam, altro non sia che lo spirito di ricerca, di domanda. Quante donne e quanti uomini hanno avuto fame e sete del volto di Dio, quel volto luminoso e tutto armonia che nessuno ha mai visto!

Però, le spalle sì, dice Dio, la schiena di Dio si può vedere… in ebraico il dietro, le spalle, la schiena si può dire anche «il mio dopo» (De Benedetti), quello che resta dopo il passaggio di Dio, la sua presenza e la sua assenza della storia. Il mio dopo! E se tu vieni dopo, stai dietro a Dio, vuol dire che segui il movimento di Dio, il passo di Dio, senza andare troppo avanti, ma neppure senza restare indietro. La cosa principale è tenere il passo di Dio.

Questa dunque la prima cosa che dice l’Eterno a Mosè: siamo in confidenza, ma devi anche stare al tuo posto.

E poi nella seconda parte della lettura, che è l’incipit del cap. 34, una seconda cosa dice Dio a Mosè: «il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà, che conserva l’amore per migliaia di generazioni (qui si interrompe il testo liturgico) che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione».

Nel foglietto non avete il testo completo che invece è importante perché Dio manifesta a Mosè le sue qualità, quelli che la professione di fede ebraica chiamai tredici attributi di Dio e che sono: 1) JHWH, il Signore, il Signore; 2) Elohim, Dio; 3) misericordioso; 4) compassionevole; 5) lento all’ira; 6) ricco di amore; 7) e di fedeltà; 8) che conserva l’amore per migliaia di generazioni; 9) che perdona la colpa; 10) la trasgressione; 11) e il peccato; 12) ma non assolve facilmente; 13) castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino a tre o quattro generazioni.

Questa è considerata come la più esauriente confessione di fede di tutto il Primo Testamento. A differenza di altri cosiddetti «credo storici» («Io sono JHWH tuo Dio che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto», Es 20,2) non si riferisce alla rivelazione di Dio nella storia d’Israele, ma descrive – se cosi si può dire – la sua natura, che è appunto il suo Nome. Di tutte le professioni di fede veterotestamentarie, è anche la più universale[1].

Mosè deve fare i conti con una sorprendente risposta di Dio alla sua domanda: vuoi vedere la mia gloria? Vuoi che faccia giustizia del tradimento? Ecco, è la mia misericordia.

Vogliamo «capire» la Trinità? Il Signore chiede a noi come a Mosè di stare al nostro posto non nel senso che dobbiamo rinunciare a ragionare e a pensare, ma nel senso che dobbiamo fare un passo indietro per non proiettare su Dio i nostri desideri sommari di giustizia e di vendetta e pensare, guardando appunto le spalle di Dio, il dopo, quanta pazienza ha usato lui con noi, di quanta misericordia ha colmato la nostra vita!

Noi oggi possiamo dire che il volto di Dio è Gesù, quel volto i cui lineamenti raccolgono i tredici attributi del Padre (Gv 15, 24-27).

E qui ci misuriamo con le differenze nei confronti dell’ebraismo e soprattutto dell’islam. In particolare oggi l’idea diffusa tra i musulmani, da noi cordialmente ricambiata, è che il cristianesimo sia una religione irrimediabilmente sbagliata, in quanto crede cose per loro inaccettabili, come la divinità di Gesù e quindi i cristiani dovrebbero convertirsi alla vera religione che è l’Islam.

La posizione del Corano era diversa, in quanto fondato sulla misericordia di Dio, accettava pienamente la diversità cristiana. In una lettera scritta da Muhammad all’imperatore bizantino (cristiano) Eraclio, il Profeta dice: «O Gente del Libro (cristiani, musulmani ed ebrei), smettiamo di attribuire importanza alle divergenze dottrinarie tra di noi e accordiamoci invece su ciò che è indubitabile sia per voi che per noi: non adorare nessuno all’infuori di Dio e non prenderci per protettore  nessuno all’infuori di Lui».

Coerente con queste parole, avvenne che un giorno giunse a Medina, capitale dello Stato governato da Muhammad, una delegazione cristiana con il vescovo che insieme con i suoi preti venne accolto dal Profeta nella moschea. Quando fu l’ora di pregare, questi si alzarono e celebrarono la loro preghiera all’interno della moschea. Cosa oggi purtroppo del tutto impensabile perché sia nella città di Medina come pure nella Mecca è severamente vietata la sola presenza dei non musulmani. Ma anche più semplicemente chi è stato alla spianata del tempio a Gerusalemme, sa di non potervisi recare con simboli o libri cristiani. Ma non è sempre stato così!

A fronte della misericordia di Dio, della sua grandezza nell’amore che tutti crediamo, dobbiamo fare i conti con la nostra povertà, con le nostre contraddizioni, con le regressioni storiche, ma non per questo dobbiamo perdere il coraggio di camminare in questa direzione.

Papa Francesco pensando appunto a un anno dedicato alla Misericordia, scrive che l’architrave che sorregge la vita della Chiesa è la misericordia. Tutto della sua azione pastorale dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza… nulla del suo annuncio e della sua testimonianza verso il mondo può essere privo di misericordia. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole (Misericordiae Vultus, 10).

Nessuno di noi  può pensare di osservare tutti e tredici gli attributi della misericordia di Dio: in settimana perché non proviamo a rileggerli e a meditarci sopra chiedendoci quale di questi può essere oggetto della nostra preghiera e della nostra conversione.

[1] Il brano dei tredici attributi ha poi conosciuto varie riprese e sviluppi nella Torà (Nm 14,18; Dt 7,9), nei Profeti (Na 1,3; Gl 2,13; Gn 4,2) e nei Salmi (Sal 86,15; 103,8; 145,8).