V DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Mt 22, 34-40


Abbiamo ascoltato tre pagine della Scrittura che considero altrettante autentiche perle preziose.

La prima dal libro del Deuteronomio (lett. Seconda legge, in ebraico Devarim – parole) è la professione di fede di Israele, vale a dire un punto fermo, un gancio cui appoggiare la vita personale e del popolo. Noi ci saremmo aspettati parole come “sforzati di credere”, oppure: “cerca di fare”, o ancora: “prega”! No, il primo verbo è “ascolta”, e poi “ama”.

Quando facciamo la nostra professione di fede, quando diciamo il Credo né il verbo ascoltare, né amare ricorrono mai una volta! Per dire come abbiamo reso astratta e disincarnata la nostra fede.

All’inizio della fede non si dà un atto orgoglioso e superbo dell’uomo che afferma di credere, come frutto e conquista della sua ricerca intelligente… La spiritualità biblica non dirà mai che Dio è l’oggetto della nostra caccia al tesoro! L’esperienza di chi ci ha preceduto, dice che prima siamo amati, all’inizio, in principio c’è l’iniziativa dell’Eterno.

E di fronte a un amore che ti viene donato, dinnanzi alla vita che è il più grande dono d’amore di Dio, cerchiamo di ascoltare!

Si tratta di ascoltare, prima ancora di agire, perché nella vita ci sono già le tracce dell’amore di Dio. Questo passo viene raccontato dopo la liberazione dalla schiavitù in Egitto, gli ebrei avevano avuto modo di vedere! Essi avevano visto i prodigi e i miracoli che Dio aveva compiuto nei confronti degli egiziani: la trasformazione delle acque del Nilo in sangue, le tempeste di fuoco e di grandine, il perpetuarsi del buio oltre l’alba. Avevano visto la miracolosa apertura del mar Rosso. Erano stati presente e avevano visto il monte Sinai tremare al fuoco della presenza del Signore durante la promulgazione del decalogo (Elia Kopciowski).

Ora, dopo aver visto, devono «ascoltare» perché se ascolti la vita ti rendi conto di quanto amore il Signore ti ha destinato e di come ti abbia accompagnato.

Possiamo dire anche noi cosa abbiamo visto di Dio nella nostra vita? Siamo in grado di riconoscere i segni della sua pasqua, del suo passaggio nella nostra esistenza? Sappiamo vedere come lui ci ha guidato, ci ha sostenuto, ci ha dato di sperare anche nelle notti più fonde? Quali segni di tenerezza abbiamo sperimentato dalla misericordia dell’Eterno?

Ecco allora, solo dopo aver riconosciuto di quanto amore siamo amati potremmo balbettare qualcosa sull’amore che non risulti retorico.

Succede, come dice la prima lettura ai vv. 10-12, che quando vivi nell’abbondanza, quando abbiamo case piene di ogni bene, quando siamo sazi… diventiamo facilmente più inclini a dimenticare ciò che il Signore ha fatto per noi. È quella inclinazione autistica della vita umana che nei tempi di crisi tende inevitabilmente a rafforzarsi e a sclerotizzarsi.

Inclinazione dovuta alla facile dimenticanza della storia da cui veniamo così da perdere la consapevolezza di essere un popolo liberato che ora corre il rischio di tornare schiavo, non più del faraone d’Egitto, ma del faraone di sé stesso.

È questa cosa che il Signore ci chiede di tenere fissa nel cuore. Ed è infatti difficile tenere qualcosa di stabile nei nostri cuori, quando il cuore di per sé stesso non è stabile, né fedele. E come possiamo tenerlo fisso nel cuore questo invito ad ascoltare? Ripetendolo ai figli, richiamandolo quando siamo per strada e in casa, alla mattina e alla sera, come braccialetti o anelli o altro che siano come monito costante a non perdere la memoria.

Non dimentichiamoci che il verbo ricordare rimanda al cuore, dal lat. re-cordari, in quanto gli antichi pensavano al cuore come sede della memoria. Il cuore non è solo la sede dei sentimenti, delle emozioni, ma è il centro unificante della persona. Lì si condensa ciò che appunto diciamo “ci sta a cuore”. Il cuore come dice la Scrittura si nutre di memoria, vive alimentando il ricordo e non la superficialità che tutto rende banale. Cuore e memoria. Per amare è necessario ricordare.

Nella lettera ai cristiani della Galazia, Paolo ci dona una seconda perla preziosa: per anni lui aveva fatto dell’osservanza della Legge il criterio di fedeltà e di amore per Dio.
Ora quello che la Legge di Mosè ha fatto di buono non va perduto, ma la grandezza del Cristo è stata di aver scoperchiato la pentola dell’ipocrisia, perché la legge fine a sé stessa non rende capaci di amare, non rende liberi, ma sudditi e anche ipocriti al punto che uno come Paolo credeva di fare un servizio a Dio, mentre perseguitava quelli che non la pensavano come lui.

Ora non è molto diverso l’atteggiamento che abbiamo nei confronti dei migranti. Mentre la gente muore in mare, cinque stragi in una settimana con almeno 200 morti lungo la rotta dalla Libia all’Europa, non c’è nessuna nave di soccorso perché bloccate dai provvedimenti italiani che ostacolano gli interventi della flotta civile, e da un’Europa che promette solidarietà, con la retorica del ricollocamento tra i paesi dell’Unione – ricollocamento peraltro evitabile con la monetizzazione dei rimpatri in carico al primo paese di ingresso – che non risolverà purtroppo la questione dei sovraffollamenti nei cosiddetti hotspot di frontiera, incluse Moria e Lampedusa.

Non è continuando ad ignorare le migliaia di persone compresse alle frontiere o monetizzando intermediari nei campi di isolamento e di espulsione che si può pensare di ripulire blandamente la propria coscienza democratica. La legge diventa un alibi e una grave responsabilità. Perché l’altro sono io. Il suo sguardo è mia responsabilità.

«Amerai il prossimo tuo come te stesso», dice Gesù, ed è la terza perla di oggi. Non è affatto scontato che noi ci amiamo, che ciascuno ami sé stesso, anzi ci vorremmo sempre diversi, migliori… e dubitiamo perfino che Dio ci possa perdonare. Ma il Signore non ci invita al narcisismo, noi ci chiede di amare la nostra immagine, l’immagine che vogliamo che gli altri abbiano di noi, l’immagine che vogliamo difendere dagli altri…

Amare noi stessi è anzitutto “ricordare” quanto ci ama Dio, perché il suo è un amore che non ci meritiamo. Così possiamo imparare a guardare noi stessi come Dio ci guarda, a vederci come creature che non sono mai troppo belle da annegare nella propria immagine, ma nemmeno così brutte da sentirsi rifiutate da lui.

Se posso assumere un tono confidenziale, devo dirvi che più vado avanti, mi rendo conto che amare alla fine è misericordia, tenerezza e, se non fosse fraintesa, anche compassione, anzitutto per noi stessi.

Chi di noi non ha bisogno di questo tipo di pronto soccorso? Nessuno di noi cambia con le condanne, con le sentenze, ma cambia con la tenerezza e la misericordia. Quando la compassione è onesta fa affiorare il nostro buio, i nostri danni, il rancore, il rimorso, l’odio e solo così possiamo prendercene cura, scoprirci responsabili di quello che facciamo dei nostri pensieri e delle nostre negazioni di quella parte di noi che appunto ha bisogno di pronto soccorso.

Noi abbiamo bisogno anzitutto di essere amati. La povertà più grande che troviamo in noi e nelle persone intorno a noi è quella di non essere amati. Essere povero è il bisogno di essere amato. E chi non ha bisogno di essere amato? Quale persona è così sciocca da pensare di bastare a sé stessa?

Se guardiamo le cose da questa prospettiva, dalla compassione e dall’amore per noi stessi, potremo inviare amore e tenerezza a chi è intorno a noi. Un fiore non ci chiede se lo sentiamo profumare. Così amare è inviare compassione a chiunque sentiamo in difficoltà senza chiedere nessuna ricevuta di ritorno.

Tre perle dunque riceviamo oggi. La prima: non smettiamo di ascoltare di quanto amore siamo amati da Dio, facciamone memoria ogni giorno.

La seconda: vigiliamo sull’ipocrisia dell’osservanza della legge, perché la legge non ci fa amare, non ci rende liberi di amare.

Infine, la terza: rendiamoci conto che ciò di cui abbiamo più bisogno per andare avanti, anche quando magari il sentimento dell’amore si è affievolito e si è un poco spento, è la misericordia, è l’avere compassione, è la tenerezza. Come diceva l’altro giorno Papa Francesco all’ONU: la crisi attuale è un’opportunità: è un’opportunità per l’ONU, è un’opportunità per generare una società più fraterna e compassionevoleLa pandemia ci ha dimostrato che non possiamo vivere senza l’altro, o peggio ancora, l’uno contro l’altro.

(Dt 6, 4-12; Gal 5, 1-14; Mt 22, 34-40)