VIII DOPO PENTECOSTE - Mc 10, 35-45
Proviamo anche solo per un istante a immaginare Giovanni ormai anziano mentre lascia affiorare dalla memoria quella richiesta fatta qualche anno prima a Gesù, insieme al fratello Giacomo: Signore, devi fare quello che ti chiediamo noi! Vogliamo contare, vogliamo essere importanti e non come tutti gli altri, vogliamo comandare!
È quanto succede anche a noi quando affiorano alla memoria ricordi di situazioni di cui oggi ci vergogniamo tremendamente. Erano prese di posizione che allora sembravano indiscutibili e perentorie e che ad anni di distanza invece vorremmo cancellarle dalla memoria perché ci fanno sprofondare nella vergogna: ma come abbiamo potuto chiedere una cosa del genere? Cosa avevamo in testa?
Eppure la loro esperienza dietro a Gesù doveva passare di lì, perché è una questione antropologica che ci riguarda: noi tutti siamo così, vogliamo avere il controllo, vogliamo dominare, vogliamo essere superiori agli altri.
Ora non so cosa avessero capito di Gesù i nostri due, anche perché già al capitolo 9 quando a Cafarnao era rientrato in casa di Pietro e aveva domandato ai suoi: ma di che cosa stavate discutendo lungo la strada? Non ebbero il coraggio di dirgli che stavano discutendo su chi tra loro fosse il più grande, il più importante!
Come vedete è una questione permanente, ricorrente. Cambiano gli scenari, ma siamo abitati da questa pulsione che non risparmia nessuno, nemmeno i discepoli più intimi e che non è solo una questione personale, infatti la storia ha sempre raccontato a partire dai satrapi ai faraoni, dagli imperatori e re fino ai vari führer, duci, colonnelli… che c’è chi ambisce a comandare, a prendere più potere, ma c’è anche chi glielo permette, anzi lo chiede, lo domanda!
Questa è la nostra condizione. Anche la prima lettura ne parla. Ormai entrati nella terra promessa, morto Giosuè si scatenano le divisioni, le lacerazioni e le lotte di potere all’interno delle tribù d’Israele. Siamo alle prese con quel periodo storico che va dall’ingresso nella terra di Canaan (seconda metà del XIII sec. a.C.) fino all’epoca dell’istituzione della monarchia (a cavallo tra l’XI e il XII sec. a.C.): sono due secoli tra i più oscuri e indecifrabili. Complicati per l’impatto con la civiltà cananea che rimise in discussione tutta una mentalità, una cultura.
Da pastori diventare contadini non fu un fenomeno indolore, da nomadi a stanziali, da tribù autonome a un popolo unito… sono processi storici che, come sappiamo che hanno bisogno di figure capaci, capaci di visione, di prospettiva e non solo di potere, di occupare posti.
In questo contesto emergono alcuni personaggi che vengono chiamati “giudici” (shofetîm) che non hanno a che fare con i nostri magistrati. Sono figure carismatiche che in un tempo di crisi vengono scelti per guidare e governare ma, come dice la lettura, con lo stesso spirito di Giosuè, servo del Signore, quindi con spirito di servizio.
Ma appunto, la gente ama rendersi schiava di chi invece parla alla pancia, di chi promette cose improbabili, di chi un giorno dice una cosa e un altro ne dice un’altra… altrimenti non si spiegherebbe come mai possano avere un seguito tale prima che la coscienza popolare si risvegli.
D’altronde, la libertà è un processo in continuo divenire. Quante volte appoggiamo la felicità della nostra vita a piccoli o grandi tiranni! È libera la persona che si angoscia, si irrita, si innervosisce perché non ha potuto fumare una sigaretta?
È libero l’uomo che non può evitare di seguire tutte le sue pulsioni sessuali? È libera la persona che si dà al gioco fino a perdere tutto ciò che ha? È libero l’uomo che passa ore e ore davanti allo schermo senza poterne fare a meno? È libero l’uomo che si lascia prendere dalla brama di possesso fino a picchiare la compagna?
Siamo tutti più o meno prigionieri delle nostre paure, delle nostre pulsioni, del nostro carattere, delle nostre abitudini. siamo schiavi, ma quando Gesù afferma: Tra voi però non è così (v.43) apre appunto una possibilità altra, dice una cosa di una potenza unica.
Noi avremmo usato il condizionale: avremmo preferito dire che non dovrebbe essere così, perché invece anche nelle comunità e nei gruppi cristiani – proprio come nel gruppo dei dodici – ci sono ambizioni, attese, aspettative di dominio, giochi di potere con tutto ciò che ne consegue.
Tra voi però non è così. E allora com’è? Se non è così, come deve essere? Ci vorrà del tempo perché Giovanni, e con lui i discepoli, possano riuscire a comprendere le parole del Signore. Quel Tra voi però non è così, gli sarà più chiaro quando vedrà davvero il peso di Gesù, quella che nel vangelo Giovanni chiama la sua gloria e allora sarà uno spettacolo inaudito: il Signore seduto su un trono scomodo, quanto è scomoda una croce, con accanto due delinquenti! Ecco la gloria di Gesù che non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita.
Il contributo di Gesù alla storia dell’umanità e non solo alla storia delle religioni è qui: come si supera la logica oppressore-oppresso, dominatore-dominato? Come ci si libera dalla logica che il forte vince e domina il debole? Come liberare l’umanità che sembra condannata e rassegnata a cercare sempre un tiranno dal quale far dipendere la propria felicità?
Gesù ci dice con la sua vita come si rompe la logica oppresso-oppressore, forte-debole, libertà-schiavitù: mettendosi al servizio. Parola desueta, fuori moda. Forse è più intenso e meno equivoco il sostantivo greco “diaconia”, che in latino recita minister che significa appunto “servizio”, perché i ministri e non solo quelli politici, dovrebbero (qui il condizionale è d’obbligo) essere al servizio del bene comune, al servizio soprattutto dei più deboli, della giustizia.
Quando i discepoli all’inizio della pagina si rivolgono a Gesù dicendogli: Maestro! Lui risponde: sono un diacono, non sono venuto per farmi servire, ma per servire![1] Se avesse parlato latino avrebbe detto: sono un ministro, cioè mi metto al servizio.
Gesù è maestro nel momento in cui è ministro, vale a dire servo, diacono. Al contrario il dittatore, il satrapo, il capitano di turno fomenta la rabbia, soffia sul fuoco dell’odio, esaspera gli animi perché dove regna la paura e la divisione lui possa imperare e così gli altri diventano suoi servi.
Sul palcoscenico della storia appaiono spesso personaggi di una mediocrità imbarazzante che si presentano come liberatori, come uomini forti capaci di risolvere i problemi, a condizione di assecondarli, di rendersi loro servitori in tutto e per tutto, senza spirito critico.
Questi personaggi distruggono il proprio animo perché lo nutrono dell’infelicità altrui, dell’asservimento del mondo e della distruzione della vita. E così distruggono anche lo spirito di un popolo, di una comunità che non diventa mai protagonista e proattiva, ma sempre oggetto di propaganda che viene ammaliata dal bisogno di sicurezza e di ordine, e che in realtà fa della violenza verbale il pensiero egemone.
Dal punto di vista sociale e culturale espressioni come servizio, accoglienza, dialogo, rispetto, dignità… diventano impronunciabili. Ma così facendo l’umanità diventa un terreno fertile dove fiorisce la xenofobia, il razzismo e si accresce l’intolleranza. Ma un popolo, un paese che voglia avere futuro ha bisogno di persone abitate dallo spirito di servizio, necessita di governanti che si mettano a servizio della vita.
Non è scontato nemmeno nella chiesa che i pastori siano al servizio, le parole di Gesù sono una spina nel fianco anche per i discepoli: è proprio vero che nella chiesa di Cristo Tra voi però non è così?
Possiamo dire di essere una comunità di fratelli e sorelle, che si servono gli uni gli altri, e tra i quali chi ha autorità è servo di tutti? Nella chiesa non dovrebbe esserci possibilità di acquisire meriti di anzianità, di fare carriera, di vantare privilegi, di ricevere onori: basta essere servi dei fratelli e delle sorelle.
Cristo ci affida questa rivoluzione perché se davvero almeno in qualche parte del mondo è possibile che non sia così, significa che è possibile per la storia umana, un altro mondo è possibile.
Se è possibile che ci mettiamo a servizio, se è possibile che viviamo le nostre responsabilità come un servizio, significa che non per forza di cose dobbiamo sottostare ai dettami dei poteri forti, che dobbiamo necessariamente assistere a un mondo che declina…
[1] È curioso notare come il termine “ministro” abbia il suo contrario etimologico nel termine “maestro” dal latino magister (magis: maggiore). Se il ministro è il minus-minore, il maestro è il magis-maggiore.
(Gdc 2,6-17;1Ts 2,1-2.4-12; Mc 10,35-45)