II DI AVVENTO - Mc 1, 1-8


(Is 19, 18-24; Ef 3, 8-13; Mc 1, 1-8)

Se la liturgia in questa seconda domenica di avvento ci fa incontrare la figura di Giovanni Battista, il precursore, che ha preparato storicamente la strada a Gesù, vuol dire che c’è un qualche significato anche per chi, come noi, vive non tanto la venuta di Gesù che già conosciamo e amiamo, ma il suo ritorno.

Ed è questa una dimensione che il cristiano contemporaneo normalmente non vive con molta consapevolezza: abbiamo a cuore molti aspetti della vita di Gesù in Galilea e in Giudea, abbiamo imparato a mettere al centro della nostra fede il mistero pasquale, la morte e risurrezione del Cristo, così come ce lo ha insegnato la Sacrosanctum concilium (seconda scheda), ma del suo ritorno alla fine del tempo e come punto omega della storia … non abbiamo grande coscienza.

Questa stessa cosa potremmo dirla della prima venuta del Signore: al punto che se ci domandassimo se Gesù venisse oggi, qualcuno lo riconoscerebbe come Messia?

Siamo così sicuri che l’uomo attende qualcosa o qualcuno e non sia piuttosto portato a darsi le proprie sicurezze e a costituire da sé i propri riferimenti?

Anche al tempo del Cristo c’erano i religiosi che tenevano accesa l’attesa del Messia, ma è anche vero che molta gente non aveva questa consapevolezza, tant’è che alcuni poi riempivano quest’attesa di iniziative politiche, insurrezionalistiche…

Perché non mi spiegherei allora il gridare di quel profeta bizzarro nel deserto e mi verrebbe da dire a Giovanni: «Ma se vuoi convertire la gente devi andare in piazza, nei porti, nei mercati … nei centri commerciali, diremmo oggi».

Questa era anche la provocazione che mi veniva fatta in questi giorni conversando con un amico sul fatto che la chiesa in questo tempo dovrebbe avere strategie di evangelizzazione «moderne» e aggressive, capaci di scuotere…

Invece il vangelo di Marco ci dice che tutto comincia, non a Gerusalemme, né a Roma, nemmeno ad Atene che culturalmente era pur sempre un riferimento … ma tutto comincia con una voce che grida nel deserto.

Conosciamo bene i rimandi biblici al significato del deserto, come luogo di prova, di tentazione… luogo di purificazione e di alta esperienza mistica e spirituale.

A me sta a cuore capire perché il deserto costituisce il passaggio obbligato per chiunque voglia portare a maturazione le più profonde aspirazioni umane?

Cosa accade in genere? L’uomo appena identifica un’esperienza significativa, che sia un luogo o una persona, un gruppo o un movimento, si appoggia ad essa e la fa diventare un monumento, la ingessa o la costringe dentro le forme del successo, o di una presunta tradizione, abdicando spesso alla propria coscienza e responsabilità.

Se Giovanni si fosse adeguato a questo scivolamento, avrebbe realizzato nel deserto un resort a cinque stelle … ma questo non avrebbe fatto altro che alimentare quel circolo vizioso per cui come esseri umani siamo continuamente immersi nell’impegno di costruire forme di vita, di esistenza e di relazione sempre più articolate, complesse e rassicuranti. Ma al tempo stesso avvertiamo il desiderio del deserto, di silenzio, di ritorno in noi stessi, eppure facciamo di tutto ogni giorno per riempirlo perché ci fa paura.

Ecco, a me sembra che come la generazione del Battista, e come ogni generazione umana, abitiamo la contraddizione per cui nel nostro cuore affiora, quasi fosse un desiderio di fuga, il bisogno di silenzio, di essenzialità, di ritorno a noi stessi, ma al tempo stesso siamo sempre più irretiti, mai forse come oggi appunto, nella «rete» delle parole, dei messaggi, dei social network, della comunicazione… In un mare di parole che rischiano di parlare senza riuscire a comunicare davvero.

Abbiamo bisogno di entrare nel deserto come sentimento di un’assenza incolmabile, di un’esperienza esclusiva della coscienza, perché se vogliamo che si apra una via nella vita, se vogliamo vivere con responsabilità, occorre accettare il deserto, il silenzio, l’essenzialità, la mancanza … perché in quella condizione risuona la voce graffiante, quella voce che fa male dentro, ma che ha la capacità di sospingerci oltre, verso l’incontro autentico con Cristo e non con le nostre idee su di lui: Dopo di me viene colui che è più di me, dice Giovanni.

Il deserto allora, come luogo della conversione, del ritorno a noi stessi, non è fatto per abitarci, per installarci, ma come condizione e premessa cui ritornare per un autentico incontro con Gesù. E l’incontro con Cristo non è solo sentimento o emozione, ascoltare la voce che risuona nel deserto esige un coraggio impietoso, poiché non segue le sicurezze e le garanzie della consuetudine.

Non dobbiamo idealizzare il deserto, perché appunto non dobbiamo restare nel deserto, ma se siamo entrati in questa condizione di silenzio, di essenzialità, di assenza, allora siamo in grado di ascoltare la voce ruvida di Giovanni, voce appena prestata alla Parola che ci conduce ad essere battezzati in Spirito santo, ovvero a vivere altrimenti e non più schiavi della pigrizia che innalza false sicurezze intorno alla coscienza.

A quel punto anche noi potremo scrivere che c’è un inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio nella nostra vita, come dice Marco, e avremo un cuore e una mente per vegliare nell’attesa del suo ritorno. Non per paura, perché Dio stesso veglia su di noi, non ci sorveglia: si sorveglia in nome della legge, e si veglia – come succede alla mamma e al papà – per amore.

Così nella notte o Dio anche noi veglieremo, diciamo nel canto, e veglieremo con le lampade della preghiera, della fede, ma anche con una coscienza libera che arde di incontrarti, Signore!