IV DI AVVENTO - Mt 1, 18-24


(Is 7, 10-14; Mt 1, 18-24)

Il profeta Isaia, che potremmo a ragione definire come il “profeta dell’avvento”, ci conduce sulla soglia del mistero del Natale di Gesù. Nonostante la distanza di settecento anni, le stesse parole che il profeta pronuncia al re Acaz le troviamo sulle labbra di Matteo, il quale dopo aver raccontato di Giuseppe e del suo sogno, scrive: «Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Ecco la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emanuele, che significa Dio con noi».

Il contesto storico delle parole di Isaia è per certi aspetti vicino al tempo in cui nasce Gesù. Siamo nella seconda metà dell’VIII secolo, re di Giuda è Acaz (734-627), i regni di Damasco e di Samaria sono stanchi delle tasse che devono pagare all’impero assiro e decidono di ribellarsi.

I loro eserciti però sono troppo piccoli per opporsi a quello assiro e pensano allora di trovare nel regno di Giuda un alleato, ma il re Acaz non vede di buon occhio questa alleanza e ritiene questa ribellione un’avventura folle. Allora Damasco e Samaria dichiarano guerra a Giuda e il re Acaz impaurito chiede aiuto all’Assiria (Tiglatpileser III). Naturalmente questo aiuto comportò gravi ripercussioni per Giuda che venne sottomesso all’Assiria pagando un idoneo tributo.

Nel succedersi di questi eventi Isaia aveva tentato in ogni modo di scoraggiare il re dal chiedere aiuto all’Assiria, il profeta, come dice all’inizio del cap.7, cercava di tranquillizzare  il cuore del re e del popolo che si agitano come si agitano gli alberi del bosco!

Per il profeta l’atteggiamento del re e del popolo di fronte al problema contingente non deve essere quello di chiedere aiuto a un re o a un esercito più potenti, ma di fidarsi di Dio che si è impegnato con Gerusalemme e della sua promessa con la dinastia davidica. Altre scelte sono il segno evidente di chi dispera nell’aiuto dell’ Eterno.

Umanamente si tratta di un atteggiamento molto duro, perché significa non affidarsi a iniziative politiche e militari secondo le quali viene spontaneo cercare alleanze e strategie vincenti. Il messaggio profetico è chiaro: non ci si può fidare di governi e di cancellerie che comunque impongono il loro prezzo, ma occorre saper riconoscere i segni della cura del Signore.

Uno di questi segni è appunto l’annuncio della nascita di un bambino: la vergine concepirà e partorirà un figlio. La ragazza è, nell’orizzonte storico di Isaia, la giovane sposa del re che non ha ancora avuto figli. La nascita di questo piccolo che si chiamerà Ezechia e che sarà grandemente elogiato nella Bibbia come uno dei migliori e dei più fedeli al Signore, è il segno appunto della fedele promessa del Signore che così educa il suo popolo.  È davvero ben poca cosa per vincere la paura che serpeggia nel popolo, ma non c’è alternativa: sarà lui, l’Emanuele, il segno appunto che Dio è con la sua gente, che si è impegnato col suo popolo e che non c’è alternativa perché, continua Isaia, se non credete, non sussisterete! (7, 9b). Tant’è che Isaia inascoltato dal re, deciderà di rimanere in silenzio fino alla morte di Acaz.

Perdonerete questo ripercorrere una storia apparentemente lontana da noi, ma è indispensabile per comprendere la narrazione di Matteo che richiamando questo passo di Isaia esprime una precisa intenzione: non si tratta di fare del profeta un indovino, come se avesse avuto la sfera per prevedere gli eventi futuri, né di guardare alla storia semplicemente come a qualcosa che succede, a una concatenazione di eventi che dipendono da ciò che accade prima.

Matteo colloca nel contesto storico dell’oppressione romana del popolo eletto, l’annuncio di una salvezza, di una liberazione, non attraverso alleanze ed eserciti, non attraverso appoggi e strategie, ma attraverso la nascita di un bambino.

Anche allora i partiti del tempo si schieravano chi a favore  e chi contro il dominatore romano. I sacerdoti e gli scribi- che pure se ne intendevano di Bibbia – cercavano di galleggiare e di manipolare l’opinione pubblica per garantire i propri privilegi e le proprie ricchezze.

L’annuncio evangelico risuona dunque con tutta la sua forza destabilizzante, perché la liberazione necessaria non è prima di tutto la liberazione del cuore dell’uomo da un nemico esteriore, ma da quel nemico interiore che è il peccato dell’uomo, sia esso religioso o meno, peccato che lo porta in definitiva a stare nel mondo senza Dio.

E i “senza Dio”, non sono anzitutto i non credenti, ma quei credenti che pur credendo stanno nel mondo assecondando la logica mondana del potere, del risultato, del vantaggio, magari in nome di Dio!

Perché questo è il dramma che ci avvolge: siamo pronti a celebrare Dio in chiesa e nelle celebrazioni, ma fuori nel mondo, la fede risulta spesso del tutto irrilevante e molti credenti (siano essi pastori o laici) “praticamente” vivono senza Dio.

Il primo annuncio della nascita di Gesù è dunque per noi, per la Chiesa di questo tempo. Il bambino di Betlemme dice qual è l’intenzione dell’Eterno: il bambino si chiama Gesù, ovvero Dio stesso diventa uomo per salvare dal peccato. E i primi da salvare siamo noi.

L’annuncio secondo Matteo avviene attraverso il sogno di Giuseppe, ovvero nel momento in cui l’uomo è meno attivo, non ha iniziativa, perché il sogno opera dentro l’animo umano a prescindere dalla nostra volontà.

E, sempre secondo Matteo, l’iniziativa dell’Eterno viene narrata non come in Luca secondo la prospettiva della Madre, ma dal punto di vista di Giuseppe, definito “uomo giusto”.  Giusto perché non ricorre a sotterfugi. Non ha bisogno di cercare altre vie d’uscita da una situazione critica. Giusto perché, come già il profeta Isaia, sa riconoscere nella storia la fedeltà di Dio che passa attraverso segni semplici, ma gravidi di futuro.

L’annuncio del natale di Gesù ci restituisce non tanto alla commovente atmosfera di questi giorni di cui abbiamo anche tanto bisogno, per questo non era necessaria l’Incarnazione di Dio. Contemplare il Bambino di Betlemme significa per noi essere Chiesa che si fida della sua fedeltà che passa attraverso piccoli segni.

Quando, come già il popolo di Dio, cerchiamo alleanze, compromessi, privilegi e quant’altro, evidentemente in nome di valori nobili, siamo ancora soggiogati dalla logica mondana di quel peccato dal quale appunto Gesù viene a liberarci.

Lo esigeva con parole straordinarie il Concilio: «La Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli dall’autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare della sincerità della sua testimonianza» (GS 76).

Forse è per questo che come cristiani non abbiamo più sogni e di fronte a una società incerta e confusa, sappiamo solo apparire come i difensori dei nostri privilegi e interessati non all’uomo e al suo destino, ma alle nostre opere, al nostro successo.

Forse è per questo, ed è ancor più grave, che non siamo nemmeno più “giusti” come Isaia e Giuseppe, trasparenza della fedeltà di Dio, ma privilegiamo l’atteggiamento di Esaù che per un piatto di lenticchie riuscì a svendere la grande eredità che sarebbe stata il suo futuro (Gen 25, 29-34). Ma quante lenticchie dovremo ancora mangiare prima di convertirci?