XI DOPO PENTECOSTE - Lc 16, 19-31


(1Re 21, 1-19; Lc 16, 19-31)

Tra la prima lettura e il Vangelo c’è una distanza temporale di circa 850 anni. Tra il Vangelo e noi ci sono quasi duemila anni… eppure la storia pare essere sempre la stessa, come ce lo conferma anche la cronaca di questi giorni. Chi più ha, più vuole; chi più possiede, più ruba… e se poi chi ruba è a capo del suo popolo, come era il re Acab, non guarda in faccia a nessuno per inseguire i suoi appetiti e anziché tutelare coloro che il Signore gli ha affidato, ne usurpa i diritti. La storia della vigna di Nabot è emblematica. Ma andiamo con ordine.

Quando muore il re Salomone, il figlio Roboamo, non fa a tempo a salire sul trono che le dodici tribù, dopo tutta la fatica che avevano fatto per diventare una nazione, si dividono. Le dieci tribù del nord stabiliscono la loro capitale a Samaria e a Izreèl, appunto dove sta Acab, mentre le due tribù del sud (Giuda e Beniamino) mantengono Gerusalemme.

I regni si divisero, per i motivi di sempre: le tribù più ricche, quelle del nord, si rifiutarono di pagare i contributi e le tasse a quelle del sud. È il tipico atteggiamento di chi sta bene: anziché guardare a chi è vicino e che può aver bisogno… si chiude nella difesa della propria ricchezza. Uno crede così di proteggere il proprio benessere, ma è pura miopia, prima ancora che egoismo. Perché? Rimaniamo al dato storico del popolo d’Israele. Così divisi i due regni, Giuda al sud e Israele al nord, di fatto sono più deboli politicamente, economicamente e militarmente. Infatti nell’arco di qualche anno il Nord cade sotto l’attacco dell’impero assiro che nel 720 sottomette la Samaria. Ma anche il Sud conosce prima le incursioni dell’Egitto e poi quelle babilonesi: Gerusalemme nel 597 viene conquistata da Nabucodonosor, il quale dieci anni più tardi la rade al suolo con il tempio e deporta in esilio gran parte della popolazione.

Questo è l’esito dell’ambizione, della bramosia, dell’ingiustizia. La storia dovrebbe insegnare… ma non insegna alcunché, perché è una maestra senza alunni. Ma vi pare che il re Acab avesse bisogno proprio di quelle due terrazze di terra che Nabot aveva da generazioni? Certo che no, tant’è che sfrontatamente dice al poveretto: Dammi la tua vigna che ne faccio un orto! Ma come, arrogante di un re, se vuoi ridurre la vigna a un orto allora non ti serve, è solo per soddisfare i tuoi capricci e i tuoi vizi. Sappiamo che con le trame di Gezabele, sua moglie, ottiene quel terreno… ma tanta avidità dove conduce? Dico solo che Gezabele conoscerà una fine orribile: buttata giù dalla finestra sarà dilaniata dai cani randagi, al punto che di lei sarà possibile seppellire solo il cranio, i piedi e le palme delle mani (2Re 9, 30-37). Fine orribile.

Come orribile è la fine del ricco del Vangelo che in vita fa finta di non vedere Lazzaro, un povero morto di fame che tutti i giorni sta alla sua porta e nel suo caso i cani hanno più sentimenti di Acab e di Gezabele!

Il re Acab doveva comportarsi da giusto, nessuno gli chiedeva di fare il voto di povertà! E così il ricco del vangelo poteva agire da uomo giusto nei confronti del povero Lazzaro… invece entrambi presi nella loro folle gara e competizione per avere di più, non vedono l’altro come persona, come figlio dello stesso Padre, non considerano la loro responsabilità, ma solamente la loro brama.

S. Ambrogio, commentando l’episodio della vigna di Nabot, diceva ai ricchi del suo tempo: «Costruendo i vostri palazzi volete superare le vostre ricchezze… Rivestite le pareti e spogliate gli uomini. Davanti alla tua casa grida uno che ha fame e non ti curi di lui; grida uno che è nudo e tu ti preoccupi di rivestire di marmo i tuoi pavimenti! Il popolo ha fame e tu chiudi i tuoi granai; il popolo si lamenta e tu volti e rivòlti le tue pietre preziose. Infelice!» (De Nabuthae, 56).

E noi oggi leggiamo nei due personaggi della prima lettura e del Vangelo la condizione di gran parte della nostra umanità: da un parte il ricco occidente e dall’altra quello che chiamiamo il «terzo mondo» e che rappresenta in realtà i «due terzi del mondo», e sarebbe il caso di chiamarlo non «terzo mondo», ma «i due terzi del mondo». Non solo, ma Luca chiamando il povero per nome tradisce la nostra avidità nascosta per la quale ci risulta più facile conoscere bene i nomi dei ricchi e imparare ben presto i nomi di quelli che contano, mentre i poveri sono senza nome e senza volto, una massa anonima e informe di disperati senza importanza…

Allora ci chiediamo: ma è possibile cambiare le cose? Possiamo sognare un’umanità diversa? Che cosa deve accadere perché un ricco possa convertirsi al povero?

Come cristiani non abbiamo ideologie da proporre, non abbiamo un disegno socio politico e tantomeno uno stato teocratico da indicare… Certamente oggi abbiamo bisogno di bravi economisti e di onesti uomini di governo… ma, ci ricorda il Signore che ben conosce il cuore dell’uomo, il popolo cristiano oggi ha da essere profeta come Elia per saper tenere viva la parola di Dio quale annuncio di giustizia.

C’è bisogno di profeti che, come dice Gesù nel Vangelo, tengano viva la parola di Dio e che impediscano alle coscienze di addormentarsi!

È vero che anche noi dobbiamo lottare ogni giorno contro la rassegnazione, anche noi siamo dentro questa continua gara e competizione ad avere di più…. Ma dobbiamo renderci conto che quella che continuiamo a chiamare “crisi” non è solo crisi delle banche o della borsa, anzi per i due terzi del mondo è da sempre crisi. La crisi è profondamente una crisi di giustizia perché come scriveva il premio Nobel K. Lorenz già nel 1973: «La competizione economica in cui l’umanità si è lanciata è sufficiente ad annientarla». La logica della competizione e della gara è davvero stolta e le nostre giornate ne sono continuamente attraversate.

Per questo occorre che nel mondo risuoni una voce libera e liberante, perché la potenza del male è possibile certamente a causa dell’avidità di alcuni, ma anche per l’indifferenza e il sonno di molti!

E in questo momento come Chiesa in Italia dobbiamo davvero interrogarci se con i compromessi con la politica, con l’alleanza col potente ricco e ladro di turno, per perseguire leggi e denari… non abbiamo rinunciato alla nostra libertà. Infatti una chiesa compromessa e non libera, non è capace di profezia e non è più dalla parte di Dio.

Il profeta grida perché ha dalla sua parte un Dio che non è indifferente al male. Il grande male è l’indifferenza al male, è l’abitudine al male fino a non vederlo, a non denunciarlo, a farsene complici e a giustificarlo.

Il Dio biblico è il Dio che partecipa alla sofferenza del povero. La giustizia dell’Eterno non corrisponde a un atteggiamento di asettica oggettività. La giustizia di Dio è la sua sofferenza e compassione per l’oppresso, per il povero, per la vittima dell’ingiustizia, è l’impegno appassionato per chi è stato calpestato nei suoi diritti, al punto che questo Dio che “soffre” così, diventa in Gesù il Dio che “si offre”, che si dona in nome della sua giustizia e del suo amore.

Voglio pensare che anche per noi non c’è cosa più importante in un’intera vita da fare che chinarci perché un altro, cingendoci il collo, possa rialzarsi, infatti, come diceva Lévinas «Il fatto che tutti gli uomini siano fratelli non è spiegato dalla loro somiglianza, è costituito dalla mia responsabilità di fronte a un volto che mi guarda».

E impariamo a riconoscere il volto e a dare un nome al povero che incontriamo.