PENTECOSTE - Gv 14, 15-20
Credo che uno dei motivi più importanti per noi che ci porta qui di domenica in domenica alla celebrazione dell’Eucaristia, sia anche quello che, pur tra tante resistenze e lotte, dentro di noi riconosciamo che dopo una settimana di corse, di affanni, di problemi, di questioni … abbiamo bisogno, come si suol dire, di tirare il fiato!
Passiamo tante ore al lavoro, a realizzare cose e progetti, a costruire e a rendere migliore la nostra vita e quella dei nostri cari, eppure ci rendiamo conto che ciò che ci è più necessario per vivere è anche ciò che non è immediatamente visibile.
Ecco cosa c’è in quell’espressione liberatoria che ci fa dire di “tirare il fiato”: avvertiamo il bisogno di ridare spazio ad una dimensione che è simile al nostro respiro, al nostro ritmo vitale senza il quale la vita non esisterebbe.
Oggi celebriamo la festa di Pentecoste. Già duemila anni fa la prima comunità dei discepoli di Cristo si è trovata nella condizione di poter morire soffocata, proprio per mancanza di un respiro che la liberasse dalle paure che la rinchiudevano nel Cenacolo.
Una comunità di persone che avevano creduto in Gesù di Nazareth, che lo avevano seguito, ascoltato, gli avevano anche voluto bene, pur tuttavia senza averlo sempre compreso, ebbene quella comunità rischiava di morire soffocata sotto le proprie paure, quando il soffio dello Spirito, ci racconta Luca, le ha ridato fiato.
Noi possiamo comprendere questa esperienza solo ce ci mettiamo sulla stessa lunghezza d’onda. La Pentecoste non è un fatto di cronaca nel quale abbiamo bisogno di andare a scandagliare i particolari, ma non è un’esperienza intimistica riservata a pochi privilegiati.
La Scrittura ci dice che è un’esperienza con due caratteristiche precise: anzitutto viene dall’alto, dal cielo, descritta secondo il linguaggio biblico del vento, del fuoco … è un’esperienza che viene dal cielo, un dono dunque.
In un mondo che rischia di impantanarsi nelle paludi di tutte le paure che ci paralizzano, di tutte le violenze che ci distruggono e di tutte le sufficienze che ci alienano, il Signore ci fa dono del suo Spirito, del suo soffio vitale.
In secondo luogo è un’esperienza fondatrice, perché come ogni vita nasce da un soffio originale e al momento della nascita tutto comincia sempre da un soffio, così la comunità dei discepoli inizia la sua missione, la sua testimonianza, grazie al dono di Dio.
Questo è il fondamento della comunità cristiana, la quale non dovrà fare altro che riproporre nel tempo i segni della vita di Gesù: l’amore, la misericordia, la giustizia, la pace.
Come hanno vinto dunque le loro paure Maria e gli apostoli chiusi nel Cenacolo? Grazie al dono dello Spirito che viene dall’alto. E quando diciamo dall’alto intendiamo un dono che non è il prodotto della nostra immaginazione religiosa, non è un frutto del nostro intimismo psichico e nemmeno il risultato del nostro impegno, ma è la partecipazione al soffio di Dio, alla vita di Dio, grazie al suo dono.
Tra poco imporrò le mani su Davide, un giovane della nostra comunità che in questi mesi ho accompagnato a completare il suo cammino di iniziazione cristiana con i sacramenti della confermazione e dell’eucaristia, ebbene imporrò le mani, su mandato del nostro Arcivescovo, proprio come facevano gli Apostoli.
Questo stendere le mani per invocare su di lui il dono dello Spirito, non è un gesto magico, ma dice che nella comunione apostolica la chiesa invoca su di lui il dono dello Spirito di Dio che viene dall’alto, quello stesso dono che viene invocato nell’eucaristia alla quale Davide si accosta per la prima volta: anche sul pane e sul vino impongo le mani perché lo Spirito li trasformi nel corpo e sangue di Gesù.
Di per sé anche nel sacramento della riconciliazione si impongono le mani sul penitente, perché solo lo Spirito santo può trasformare i nostri peccati, le nostre fragilità, se siamo davvero pentiti, in occasione di grazia e di salvezza.
Ciò che umanamente non è possibile è reso possibile dal dono di Dio e questo rende attuale per Davide e per noi l’esperienza della Pentecoste. Potremo dire che la cresima sta al battesimo come la Pentecoste sta alla Pasqua. Infatti la Pentecoste non si aggiunge alla Pasqua, ma rivela il Risorto come colui che dà lo Spirito, così la confermazione non dà un di più al battesimo, ma dice che la rinascita battesimale è in vista di una missione.
In effetti la Pentecoste non è un nuovo avvenimento della vita di Cristo; è il compimento, la pienezza del mistero pasquale.
Ecco il secondo significato dunque della Pentecoste, come esperienza fondatrice di una vita evangelica.
Se sei cristiano, se sei discepolo di Gesù, se ricevi il dono dello Spirito, è per dare continuità nella tua vita, nel tuo modo di essere, nel tuo modo di pensare al modo di vivere, di essere e di pensare di Cristo.
Infatti, ognuno di quelli che erano a Gerusalemme per la festa, dice il testo degli Atti, comprendeva nella propria lingua quello che dicevano gli apostoli.
Non siamo di fronte a un problema linguistico risolto dalla grazia dello Spirito Santo: ciascuno si sente compreso, accolto e riconosciuto nella propria lingua, cioè in ciò che costituisce la propria originalità e identità profonda.
Non è più questione di appartenere a una razza, a un popolo, ma tutti i popoli sono di Dio e tutti possono accogliere e ascoltare il vangelo di Gesù.
Quando tra poco nel rito della Cresima, ungerò la fronte di Davide con il crisma profumato dicendo: ricevi il sigillo che è il dono dello Spirito santo, gli dico: hai in te l’impronta dello Spirito di Dio come il profumo del crisma, ora sei reso capace di irradiare intorno a te il profumo di Cristo. Quel profumo di vita e di amore che solo può vincere il cattivo odore dell’egoismo, della violenza e dell’odio.
Preghiamo insieme perché sia Davide che ciascuno di noi, accogliamo con cuore aperto il dono di Dio che solo può sbaragliare le nostre paure e possiamo essere, per quello che ci è dato, il buon profumo di Cristo nel mondo.
(At 2, 1-11)