III DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 5, 25-36
(Gv 5, 25-36)
Questa è una di quelle domeniche in cui devo riconoscere la fatica ad andar dietro alla scelta delle letture fatta dalla recente riforma del lezionario ambrosiano. Già di per sé la lettura del vangelo di Giovanni non è semplice, se poi vengono estrapolati alcuni versetti come quelli che abbiamo ascoltato senza il loro contesto e lo sviluppo di tutto il cap. 5, l’impresa si fa davvero ardua. Giovanni tra l’altro ha un suo modo di scrivere che non è immediato. Dice una cosa, poi la riesprime costruendo la frase in altro modo, poi la riprende e ne amplia il significato… più che una logica discendente o un ragionamento che si costruisce in progressione, l’evangelista ama articolare il suo pensiero in maniera ellittica, come una spirale che appunto riprende dei concetti, poi si estende ad altro…
Nella pagina di oggi possiamo distinguere due parti: la prima è ritmata da una indicazione di tempo: viene l’ora… e questa indicazione viene ripetuta per due volte e ogni volta l’ora è riferita a qualcosa che accade dopo la morte. La seconda parte invece è tutto un insistere sul testimoniare, sul sostantivo testimonianza, termine che ritorna almeno otto volte in poche righe. Questa insistenza ha indubbiamente un suo motivo d’essere, perché Giovanni sa che la testimonianza è indispensabile in un processo. Quindi Gesù è sotto processo, ma perché?
Dobbiamo andare all’inizio del cap. 5, quando Gesù, nel suo primo anno di attività, salito a Gerusalemme per la seconda volta, si reca alla piscina di Betzatà, famosa per i suoi cinque portici, il suo sguardo incrocia quello di un infermo di 38 anni che da una vita veniva alla piscina considerata miracolosa, ma essendo appunto paralitico non riusciva mai ad entrare in acqua perché c’era sempre qualcuno più svelto di lui. Le parole che rivolge a Gesù la dicono lunga sulla sua sofferenza: Non ho nessuno che mi immerga nella piscina… Quest’uomo pur trovandosi in mezzo a decine di malati che sono nella sua stessa condizione o anche peggio, è tremendamente solo! Che è poi la condizione di ogni uomo, di donna: ognuno di noi è solo nel proprio dolore, ma c’è qualcuno che lo è ancora di più…
Gesù si accorge proprio di lui, anzi ha occhi solo per lui, il suo cuore intercetta la profonda solitudine di quel disperato e lo guarisce. Una cosa bella, no? Un’esperienza straordinaria, eppure di fronte alla gioia di uno che dopo 38 anni torna a camminare e ritrova la voglia di vivere, c’è sempre qualche zelante che vede anzitutto qualcosa che non va bene: sì, è bello… però l’ha fatto di sabato! Chi parla così appartiene alla razza dei religiosi, dei bigotti, di quelli che sono sempre pronti a vedere quello che non va… negli altri.
Ma anche Gesù, potremmo dire, se la va a cercare. Quell’uomo era lì anche tutti gli altri santi giorni della settimana… non poteva guarirlo di lunedì? Sarebbero stati tutti contenti e non sarebbero sorte questioni. È importante per un buon ebreo il riposo del sabato, un riposo che si fonda sul fatto che è il giorno in cui Dio crea l’essere umano: il sesto giorno maschio e femmina li creò! Solo Dio lavora di sabato, l’uomo riposa. Il Signore riposa anche lui, ma il settimo giorno, il sabato Dio crea l’uomo, lo fa vivere… e se Gesù, lavora di sabato si dà delle prerogative che non gli competono, si mette a fare come Dio. Ed è ben per questo che discutono, perché il lavoro di Gesù è il lavoro del Padre: fa vivere! La vita è il lavoro di Dio.
L’attività di Dio sin dal primo istante della creazione è dare vita e Gesù porta avanti l’opera del Padre sollevando ogni ostacolo, rimuovendo ogni barriera che impedisce all’uomo di vivere, di vivere bene, con gioia. Gesù continua l’opera del Padre perché noi abbiamo a vivere. Addirittura potremmo dire che per Gesù la prima cosa che gli sta a cuore non è la religione, non è il culto, non sono le regole, ma è la vita della gente. Anzi è in nome della religione che Gesù non viene riconosciuto e accettato come figlio di Dio, perché c’è nei suoi accusatori un blocco nella relazione con Dio Padre.
Come succede nei rapporti umani, il blocco tra genitori e figli è ciò che impedisce una relazione sana e sta all’origine dei conflitti, così per noi nel rapporto con Dio c’è a monte un blocco primordiale: abbiamo un’immagine falsa di Dio, non accettiamo noi stessi come figli e chi non conosce il Padre, non ama gli altri come fratelli. Gesù è venuto a rivelare una cosa molto semplice: che il Padre ama il Figlio e il Figlio ama il Padre e fa quel che fa il Padre: ama e fa vivere. Sono cose semplici, ma decisive nella vita di una persona e dovremmo stare su queste cose ogni giorno almeno tanto quanto è il tempo che uno perde davanti alla televisione o al PC.
Stare su queste parole di Gesù sarebbe un bell’esercizio per la nostra settimana. Perché è proprio il lasciar risuonare queste parole che rispondono alla verità profonda dell’essere umano che fa uscire da noi tutto quel frastuono, quel buio, quei blocchi che la menzogna, che la cattiva idea di Dio procurano in noi.
In questo senso l’ora che viene, come ripete Giovanni, è per noi, è l’ora in cui Gesù ci sveglia dalla morte per farci vivere. In definitiva, per questo è stato scritto il Vangelo. L’ora che viene è adesso, per chi ascolta Gesù, per noi che ascoltiamo la Parola. Per tutti coloro che sono morti, per quei morti viventi che sono le persone che conducono una vita insensata nell’egoismo, ripiegata su di sé, immobile, bloccata. È un po’ come se anche ciascuno di noi si ritrovasse sul bordo della piscina della vita, ai margini della gioia, ma è tutto solo e ha bisogno di qualcuno che gli dia una spinta… Oppure potremmo trovarci tra quei bigotti che stanno sempre a vedere quello che non va, perché sono morti dentro e hanno dimenticato che Dio è amante della vita, della gioia di vivere! Per questo Gesù è sotto processo, anzi dice Giovanni, tutta la vita Gesù è lungo e continuo processo. È accusato di bestemmia, di trasgressione… e per difendersi il Signore si appoggia ad alcune testimonianze decisive.
Anzitutto alla sua relazione col Padre – e questo è il grande dono da contemplare come dicevo prima-; poi si appoggia a quanto il profeta Giovanni Battista ha detto di lui; infine si appoggia anche alle opere che sta facendo, nel senso che testimone è anche quel paralitico guarito, così come saranno testimoni di lui il cieco nato, la donna samaritana… Ovvero tutte persone guarite nell’anima dall’incontro con lui. Vedete, non siamo noi che ci ergiamo a testimoni del Cristo. È il Signore che convoca per sé dei testimoni in questo interminabile processo che il mondo intenta al Vangelo.
Come don Pino Puglisi che il 15 settembre 1993 venne ucciso nel 1993 dalla mafia a Palermo nel giorno del suo 56° compleanno. Potremmo dire che don Pino ha risposto all’appello di Gesù per dare testimonianza di fronte a quelle mafie sempre attente nell’ostentare una religiosità di facciata e che non sempre hanno trovato sulla loro strada una Chiesa fedele al Vangelo. Perché come accade in ogni processo, anche se uno è chiamato a testimoniare può tirarsi indietro per paura, per viltà… così che le mafie spesso hanno incontrato atteggiamenti di neutralità se non, addirittura, di compiacenza e di collusione anche nella Chiesa.
Don Pino non si è tirato indietro. Forte anche della storica «invettiva» di Giovanni Paolo II dalla Valle dei Templi di Agrigento, quando, qualche mese prima degli omicidi di don Pino Puglisi e di don Peppino Diana, definì la mafia un «peccato sociale» e «una civiltà di morte», invitando i mafiosi a convertirsi.
Don Pino martire per mafia un anno dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino; nell’estate calda e sanguinosa delle stragi mafiose di Roma, Firenze e Milano; nell’autunno che preparava la famosa discesa in campo … ecco in questo contesto, la testimonianza di don Puglisi contro la mafia è stata politica, culturale ed educativa, e proprio per questo anche evangelica perché a servizio della vita e non della morte.
Voglia il Signore trovarci degni di chiamarci a essere suoi testimoni nell’impegno per la giustizia e la pace e non collusi se non con le mafie, nemmeno con la mediocrità.