II DEL TEMPO ORDINARIO - Gv 1, 29-34
(Is 49, 3.5-6; Gv 1, 29-34)
Possiamo raccogliere il messaggio della parola di Dio di questa domenica intorno a due parole, a due sostantivi. Il primo è il titolo con cui il Battista indica Gesù: Ecco l’agnello di Dio, Gesù viene presentato come agnello e il secondo è il modo con cui il Battista invece indica se stesso: sono testimone che questi è il figlio di Dio. Nel quarto vangelo, Giovanni più che il battezzatore, si definisce come il testimone.
Ma quando il Battista dice ai discepoli: Ecco l’Agnello di Dio, cosa intende dire? Nella nostra comprensione immediata l’agnello è immagine di mitezza, di docilità, cioè di tutta una serie di atteggiamenti che suscitano simpatia, premura, affetto perché in essi troviamo in definitiva il nostro bisogno di premura, affetto, simpatia, soprattutto nei momenti più difficili e duri della vita.
Così quando il profeta Geremia è perseguitato dai suoi nemici si paragona a un agnello mansueto che viene portato al macello (11, 19) e, in questo senso, come diceva anche Isaia nella prima lettura, Dio manda un ‘servo del Signore’, si tratta di un servo sofferente che nel cap. 53 viene così descritto: Disprezzato, reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire … maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello … Il servo è come un agnello che viene condotto al macello senza emettere alcun belato.
Quando gli evangelisti narrano del Cristo che, ingiustamente processato, tace dinanzi al sinedrio e non risponde nulla davanti a Pilato, vedono realizzate in lui le parole dei profeti.
Ma il Battista dicendo che Gesù è l’agnello di Dio, afferma ciò che i sinottici indicavano nel significato del nome stesso del Signore (Gesù = Dio salva), ovvero Gesù è il vero agnello pasquale, perché come il sangue dell’agnello dell’esodo sparso sugli stipiti delle porte ha liberato il popolo dalla schiavitù, così Dio sta per realizzare mediante quest’uomo una liberazione di cui l’uscita dall’Egitto era un anticipo.
Non a caso secondo la cronologia del vangelo di Giovanni, la morte di Gesù avvenne nell’ora stessa in cui si immolavano al tempio gli agnelli, non solo, ma quando i soldati che lo hanno crocifisso verificano che è morto, non gli spezzano le gambe … Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: Non gli sarà spezzato alcun osso (19,36), perché secondo l’Esodo all’agnello che salva il popolo non bisogna spezzare le ossa (Es 12, 46) [1].
Cosa fa dunque l’agnello di Dio? Toglie il peccato del mondo, dice il vangelo di Giovanni.
Il verbo greco esprime l’idea di portare (airon) nel senso di ‘prendere su di sé’, ‘sollevare’, come un alzare sulle spalle … Gesù prende sulle sue spalle il peccato del mondo, non si parla di peccati in genere, ma di peccato del mondo. Gesù non viene solamente a liberarci dai nostri peccati individuali, ad assolverci dal nostro senso di colpa, la sua missione è ancor più profonda, perché consiste nel mettere fine al dominio del peccato, mettere fine alla separatezza tra l’uomo e l’Eterno. Gesù non è qui indicato dal Battista come la nuova vittima cultuale, piuttosto è colui mediante il quale l’Eterno offre agli uomini la riconciliazione.
Notate il paradosso evangelico: l’agnello, di per sé mansueto e docile, remissivo e impotente di fronte alla violenza, trionfa con Dio sulla potenza del male. È un agnello che mette in fuga i lupi!
Ma, voi direte che per noi non è così evidente! Potremmo obiettare che Gesù non ha tolto il peccato, anzi il male sembra dilagare, sembra avere successo ovunque … No, dice Giovanni, ed ecco il secondo termine della parola di oggi, sono testimone che questi è il figlio di Dio. Giovanni attesta di essere testimone che Gesù viene come l’agnello di Dio a portare su di sé il peccato del mondo, testimone cioè che la venuta di Dio nel mondo non è alla stregua di una spedizione punitiva contro il male, piuttosto l’agnello di Dio vince il male, con il bene. Dove c’è l’amore, lì c’è il segno che il Cristo è presente e prende su di sé il peccato del mondo.
Non dice nemmeno che Gesù è l’agnello che toglierà il peccato: come a dire solo nel futuro, nell’escatologia, ma usa il presente, e dicendo toglie, annuncia una speranza per noi. La speranza è questo dono che non è così evidente come vorremmo noi, perché Gesù non mette semplicemente le cose a posto, non separa la zizzania dal grano, non condanna i peccatori e premia i giusti, ma viene per trarre il bene dal male, per vincere il male con il bene, per cui ogni volta che un atto di amore si contrappone a un atto di odio, lì c’è la vittoria dell’agnello di Dio.
Giovanni è testimone di questo modo di essere del figlio di Dio che viene a vivere e ad abitare la storia come un agnello.
Quando tra poco vi mostrerò il pane santificato e dirò: Ecco l’agnello di Dio … certamente anche noi indichiamo Gesù, la sua presenza, ma diciamo anche che se noi ci nutriamo di questo pane è perché possiamo essere nella storia, in questo momento della storia, a nostra volta, testimoni dell’agnello.
La riflessione allora per noi si fa seria, perché questo agnello che si presenta come pane spezzato ci interroga se con la nostra vita, con i nostri atteggiamenti, con le nostre scelte siamo suoi testimoni, se siamo disposti a vincere il male con il bene, o se invece in definitiva crediamo che la storia sia destinata ad essere sempre un “grande mattatoio”, come diceva Hegel.
Don Milani con una frase sferzante annotava che mentre la Germania negli anni trenta generava Hitler, l’India nella sua povertà germogliava Gandhi.
I tempi sono indubbiamente diversi e le condizioni non paragonabili, ma come chiesa nel nostro tempo e nel nostro Paese corriamo il rischio di ricadere in un analogo atteggiamento, cioè di proclamare a parole quei valori da difendere a tutti i costi per avere garanzie per la fede, rendendoci così inopinatamente funzionali e subalterni alle lotte di potere, ma soprattutto neutralizzando la portata profetica della parola di Gesù.
Così succede che questa parola, vera forza eversiva della storia, germoglia non nel tempio, non nell’amministrazione ecclesiale, ma come al tempo del Battista sulle rive di un’umanità derelitta, semplice e povera, grazie alla forza paradossale di questo agnello che ci viene donato in ogni eucaristia: è in lui la forza dell’amore, del perdono, dell’accoglienza … tutte qualità deboli, ma le sole capaci di un futuro per l’umanità.
Se la missione ci pare ardua, non scoraggiamoci, il Signore stesso ci dice: vi mando come agnelli in mezzo ai lupi (Lc 10,3). E noi a ripetere sempre, di domenica in domenica: Ecco l’agnello …
[1] Il senso di questa normativa cultuale è stato diversamente interpretato. L’esegesi tardo giudaica la spiega come un mezzo per rendere impossibile la degustazione del midollo delle ossa, in cui – come per il sangue e il grasso riservati al Signore – si supponeva abbiano sede la vita e le misteriose forze vitali. Ma era una pratica diffusa anche nell’ambito della storia delle religioni, per cui si può pensare che il timore di rompere le ossa alle vittime sacrificali esprimesse una prima idea primordiale e arcaica di risurrezione. Secondo gli arabi l’animale immolato in sacrificio alla Mecca “apparirà nell’ultimo giorno per salvare la persona che lo ha immolato e per portarla oltre la valle dell’inferno verso il paradiso”.