I DOPO LA DEDICAZIONE - Domenica del mandato missionario - Mc 16, 14b-20
Se un giovane o una ragazza mi chiedessero, come in realtà mi capita, di parlare della fede, oggi da dove comincerei? Da dove comincio di fatto?
Anzitutto da ciò che non ritengo sia necessario dire, ovvero non faccio la morale, non dico: “bisogna fare questo, quello…”; non dico: “devi venire a messa…”, o amenità di questo genere. Nemmeno sento necessario dire: “Vieni in chiesa”, “partecipa a questo gruppo”, “vai alla Caritas…”.
La prima cosa che faccio, seguendo l’esempio di Filippo nella prima lettura (annunciò a lui Gesù), è parlare di Gesù, parlare del Vangelo. E che cos’è il Vangelo? Sono i 16 capitoli di Marco o i 21 di Giovanni? Cosa dire di Gesù? I miracoli, le parabole? I fatti, gli incontri… i discorsi?
Visto che noi abbiamo raccolto l’invio del Signore, dobbiamo chiederci cosa intenda dire quando chiede ai suoi, l’abbiamo ascoltato nella pagina di Marco che è la finale del suo Vangelo: Andate e proclamate il Vangelo? Per Marco che aveva iniziato a scrivere dicendo: Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio, non dice solamente che il vangelo è di Gesù nel senso che ha per oggetto Gesù e che parla di lui, ma che il Vangelo è Gesù, è lui che parla a noi.
Annunciare il Vangelo è parlare di Gesù Cristo, figlio di Dio, della sua vita, della sua storia. Ma non si tratta semplicemente di un oggetto di predicazione, ed è qui la cosa intrigante, perché è impensabile parlare di lui senza fare quello che lui faceva: vale a dire, accogliere le persone in quel preciso momento della loro vita, in quella condizione in cui si trovano e non in quella in cui noi pensiamo debbano essere.
Ecco perché nell’inviare gli apostoli a predicare, subito chiede loro di accompagnare l’annuncio con quei segni di cui ha parlato e che troviamo magari un po’ fuori dal tempo.
Nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti, accarezzeranno i malati… non pensiamo che siano cose vecchie, tutt’altro sono situazioni attualissime, sempre vere.
Anzitutto lo scacciare i demoni. Il demone, il diavolo è il divisore per eccellenza, come dice la parola stessa, è la divisione che ci portiamo dentro tra il bene che vorremmo fare e quello che non facciamo. È la divisione tra idealità e realtà.
È la divisione che diventa emblematica nell’umanità divisa dall’ingiustizia tra chi è sazio e chi non ha da mangiare; tra chi gode dei diritti e chi viene umiliato… quante divisioni attraversano le coscienze, i cuori, ma anche i popoli, i gruppi, le famiglie.
La lacerazione più grave è quella profonda, intima e personale che si diffonde poi a macchia d’olio e contamina le relazioni e i rapporti tra i singoli e tra i popoli.
Gesù ha avuto sempre uno sguardo di cura per chi viveva scisso, per chi era attraversato dalla spaccatura interiore propria di chi si sentiva in colpa, di chi si sentiva inadeguato, di chi si sentiva sporco. Parliamo del pubblicano, il ladro per eccellenza, parliamo della prostituta, la donna scissa tra l’amore e il suo corpo, parliamo del ricco diviso dal fratello povero…
Insomma Gesù scaccia il demone della divisione, della lacerazione, della spaccatura interiore con la sua parola e la sua presenza, facendosi vicino, rendendosi accanto e prendendosi cura, quando invece tutti intorno giudicano, classificano, condannano… non è questo che continua ancora oggi ad essere causa di conflitti interiori che arrivano ad essere anche delle patologie, come la schizofrenia, la bipolarità?
Parliamo lingue nuove! Il linguaggio nuovo è quello che risuona come alternativo a un modo di essere e di porsi che causa divisione. Il linguaggio nuovo è quello di Gesù che di fronte al peccatore che lo invoca dice: Va’ la tua fede ti ha salvato!
“Ma come, io vengo a chiedere a te di darmi la fede e tu mi rimandi dicendomi così?”. Certo, perché la fede non è semplicemente aderire a dei dogmi, alle dottrine, alle verità… la fede è fidarsi, è affidarsi e siccome hai fede in Gesù, lui ti guarisce dalle malattie del dover essere, del dover apparire, del dover essere performante, della sottomissione al giudizio, al pregiudizio sociale.
Perché è vero che noi siamo ciò che incontriamo. Gli incontri con le persone, con quelle che scegliamo di stare e quelle che invece scegliamo di non incontrare, sono decisivi e affatto indifferenti al nostro modo di stare al mondo.
Accogliere Gesù e non accoglierlo non è la stessa cosa. Magari si dà una forma di religiosità, di devozione, di credo… è tutta un’altra cosa l’aver davvero incontrato Gesù. La cartina di tornasole è data dal fatto che con lui possiamo prendere in mano i serpenti, vale a dire prendere in mano la paura, perché la prima nostra reazione di fronte a un essere che non riesci a controllare e che è insidioso, è appunto la paura. Con Gesù la paura è vinta dall’affidarsi a lui.
Quante sono le nostre paure: la paura del futuro, la paura di perdere una persona, la paura per i figli… Ciò che ci salva dalla paura non è semplicemente credere in noi stessi e nelle nostre capacità. Ma la certezza che prima ancora che noi possiamo fare qualcosa per Dio, lui ci ama, ci vuole bene. L’amore di Dio precede qualsiasi nostra iniziativa. Con questa certezza non è che non avvertiamo più la paura, ma non sarà lei a governare le nostre scelte.
Dovessimo anche bere il veleno dell’odio, dell’invidia, della gelosia… quanto veleno c’è nella nostra comunicazione oggi, quanto odio corre sui social, quanta indifferenza riempie le nostre strade… ebbene con Gesù quel veleno ti scivola via. Non è una questione magica, un atteggiamento superstizioso nei confronti di chissà quale potere occulto, ma della potenza dell’amore, del dono di sé.
L’antidoto all’odio, al veleno che contamina le relazioni umane, le relazioni sociali tra i popoli, è il Vangelo di Gesù che è per tutti i popoli. Quando usi un’immagine di Dio contro qualcun altro, non è il Dio di Gesù, hai tra le mani un feticcio che giustifica te stesso e le tue insicurezze e le tue paure.
L’atteggiamento di Gesù paradigmatico anche per il discepolo, è di imporre le mani ai malati. Mi piace leggere questo gesto come una carezza. Gesù impone le mani, vale a dire accarezza le persone ferite, le persone malate, vincere l’indifferenza e la distanza con la tenerezza di Cristo.
La tenerezza, dice papa Francesco, lungi dal ridursi a sentimentalismo, è il primo passo per superare il ripiegamento su sé stessi, per uscire dall’egocentrismo che deturpa la libertà umana. La tenerezza di Dio ci porta a capire che l’amore è il senso della vita.
E ci sentiamo chiamati a riversare nel mondo l’amore ricevuto dal Signore, a declinarlo nella Chiesa, nella famiglia, nella società, a coniugarlo nel servire e nel donarci. Tutto questo non per dovere, ma per amore, per amore di colui dal quale siamo teneramente amati.
Questa missione non è esclusiva dei missionari, dei preti, delle consacrate… è responsabilità di tutti. Quando uno incontra Cristo, il Gesù del Vangelo che vince le nostre divisioni, parla il linguaggio della comunione, è l’antidoto al veleno dell’odio e dell’indifferenza scaccia la paura e accarezza la vita ferita, la vita malata, è tenerezza infinita.
(At 8,26-39; Mc 16,14b-20)