DOPO L’OTTAVA DEL NATALE DEL SIGNORE - Lc 4, 14-22
La parola evangelica di oggi ci proietta già nel futuro del Bambino di Betlemme: come in un salto nel tempo lo vediamo a Nazaret ormai trentenne, con le idee chiare di quale sia la sua missione. “Per che cosa sono venuto al mondo?” Gesù risponde citando Isaia, il profeta che ai deportati in schiavitù a di Babilonia annunciò la buona notizia ai poveri, proclamò la liberazione dei prigionieri, offrì una visione di futuro a chi non aveva nemmeno occhi per piangere, annunciò la liberazione gli oppressi…
Queste sono le cose che farà il Bambino di Betlemme, secondo una missione che è già scritta nel suo stesso nome: Gesù, ovvero Dio salva, Dio libera, Dio affranca dalla schiavitù.
Chi continua oggi questa missione? Detto altrimenti: siamo consapevoli che questa è anche la nostra missione o ci accontentiamo di essere identificati per la partecipazione a una pratica religiosa, a un atto di culto? non credo che il nostro essere cristiani abbia come scopo quello di andare a messa. Ancora oggi ci sono persone, uomini e donne, che seguendo l’esempio di Cristo obbediscono allo Spirito di Dio e vivono questa missione seguendo le orme di Gesù.
Ieri sono stati celebrati i funerali del novantenne Desmond Tutu, vescovo anglicano, la cui vita è stata una trasparenza unica di questa missione. Divenne il primo nero vescovo anglicano del Sudafrica. Tutti i suoi predecessori nella cattedrale di Saint Mary erano stati bianchi. Il suo primo atto fu di rifiutare il lussuoso alloggio che gli toccava per la carica nel quartiere ricco. Era la trappola dell’assimilazione. Lo minacciarono di espulsione, gli tolsero il passaporto. Tutto inutile. Era nel cuore della contraddizione, prete nero in un regime che era razzista e insieme cristiano.
Quando, grazie anche al grande lavoro di Mandela il regime di apartheid che durava dal 1948 venne abolito (1994), guidò la “Commissione per la verità e la riconciliazione” con il compito difficilissimo di guidare il processo di riconciliazione nazionale. Erano in molti a credere che prima o poi si sarebbe scatenata, per sete di vendetta, una guerra civile.
Desmond Tutu seppe guidare questo processo di liberazione dall’odio, dalla vendetta, facendo della sua vita una missione all’altezza del Vangelo. A chi lo accusava di fare politica, lui arcivescovo della chiesa anglicana, rispondeva: «Non predico un vangelo sociale, predico il vangelo e basta. È il vangelo di nostro Signore Gesù Cristo che si prende cura di tutta la persona. Davanti alla folla di affamati Gesù non si è chiesto se stava facendo politica. Semplicemente li ha sfamati. Perché la buona notizia per una persona che ha fame è il pane…».
Fu dunque attraverso la Commissione Verità e Riconciliazione, che riuscì ad avviare un processo in grado di mettere vittime e carnefici gli uni di fronte agli altri, senza mai confondere i rispettivi ruoli e solo dopo che i responsabili avevano riconosciuto le proprie colpe.
Tutu ebbe il merito di colmare un vuoto morale che si era aperto nella società civile che per troppi anni era rimasta silente di fronte ai crimini terribili. La commissione lavorò per tre anni. Nel Rapporto finale che raccolse confessioni, testimonianze, lamenti dei sopravvissuti e delle vittime, il quadro di violenza dell’apartheid era agganciante.
Nessuna pietà sembrava possibile di fronte al resoconto delle torture, degli omicidi, degli stupri, delle menomazioni fisiche o psicologiche commesse sulla popolazione nera non solo da privati cittadini, ma da tutto l’apparato istituzionale e civile.
Agli occhi del mondo, la Commissione divenne così uno strano tribunale, incomprensibile entro i canoni della giustizia occidentale. Non poteva condannare ma poteva solo assolvere, però dopo aver accertato la verità. I torturatori, gli assassini, gli stupratori dovevano cioè confessare pubblicamente i crimini commessi dal 1961 al 1994, dopo di che venivano amnistiati.
«Ogni volta – scriveva Tutu nella Relazione finale – la gente ha implorato di conoscere cosa è successo al proprio padre, alla madre, alla sorella, al fratello, alla figlia e al figlio. Sapere dove tutti erano seppelliti. E ogni volta la Commissione ha dovuto riaprire le ferite delle vittime, ma si è trattato di un male necessario perché ha obbligato i sudafricani ad affrontare una realtà che avevano scelto di ignorare, facendo finta di non vedere. La Commissione ha imposto la verità senza censure e senza rimozioni».
Perdonare significava rintrecciare i vissuti e riconciliarsi, perché, come disse Tutu, «dove una memoria comune è assente, dove gli uomini non sono più partecipi di uno stesso passato, non ci può essere alcune effettiva comunità».
La richiesta di perdono era quindi una richiesta di vita, una promessa di cambiamento, di liberazione. Non era, diceva sempre Desmond Tutu, «un voler girare le spalle alla belva, ma un sacro dire ‘mai più’». Perché solo la verità e il riconoscimento di quello che era successo, la rabbia e il dolore, potevano portare guarigione, e solo attraverso il perdono ci si può liberare dall’oppressore.
Ho voluto sostare sulla testimonianza di questo uomo di Dio, perché persone come lui ci possono aiutare a vincere quello strano atteggiamento di una gran parte di generazioni di cristiani che si arrende alla complessità delle sfide e si rifugia nel privato, rinunciando alla grande missione che il Vangelo ci affida.
Gesù non è stato alla finestra a predicare un mondo nuovo, ma ha sentito sue le sofferenze, le paure, l’oppressione della sua gente e di noi tutti, annunciando il Vangelo, liberando le persone dalla schiavitù della paura, dal senso di colpa, ha aperto squarci di futuro. Ha avviato processi di riconciliazione insegnandoci l’arte del dialogo, del perdono…
In una parola, non è stato neutrale. Perché questo è il grande peccato di oggi: una falsa neutralità che non distingue le responsabilità. Disse Desmond Tutu: «Se siete neutrali in situazioni di ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore. Se un elefante ha la zampa sulla coda di un topo e voi che siete neutrali, il topo non apprezzerà la vostra neutralità». Per questo, di lui papa Francesco dice semplicemente: Ha servito il vangelo, citandolo al termine dell’enciclica Fratelli tutti, tra le persone che lo hanno ispirato (n.286).
(Lc 4,14-22)