IV DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Gv 6, 41-51
Quando dobbiamo esprimere il nostro sentimento profondo e intenso come l’amore ci appoggiamo alla poesia e cerchiamo di esprimere l’indicibile prendendo in prestito alcuni simboli come i fiori, se non addirittura i gioielli, degli oggetti speciali… Gesù quando vuole raccontare del suo amore sceglie un segno semplice e quotidiano… e cosa c’è di più feriale del pane?!
Così dice oggi a Cafarnao sulle rive del lago di Tiberiade: Io sono il pane della vita. Come dirà anche a Gerusalemme nell’ultima cena, lo ricordava Paolo, quando prendendo il pane disse: Questo è il mio corpo che è per voi. Ma anche nella preghiera che insegna ai suoi discepoli, ci insegna a dire: Dacci oggi il nostro pane quotidiano!
Il pane un tempo era importante e dovevamo trattarlo con rispetto. Quando tra fratelli giocavamo a tirarci le molliche, la mamma ci diceva: “Col pane non si gioca”. Perché il pane, come è lavoro, fatica, impegno, rispetto… nella metafora del pane ci sono tutti gli ingredienti della vita. E quando manca il pane, manca sì il cibo, ma manca tanta roba…
Quando nella parabola del Figlio prodigo del cap. 15 di Luca il figlio disgraziato si decide a tornare indietro, ricordiamo cosa dice tra sé: “Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!” (v.17).
La mancanza del pane denuncia per quel giovane l’assenza di ciò per cui aveva lasciato il padre: si rende conto di non essere libero, quando fuggendo pensava di trovare la libertà. La mancanza del pane toglie la libertà, fa mancare di dignità, di fiducia nel futuro…
Lo raccontava, con tutta la drammaticità del testo, la storia di Elia. Il profeta è talmente triste e solo che, sdraiatosi sotto una ginestra – il fiore del deserto «sempre compagna di destini infelici» (cfr Leopardi) –, invoca la morte: «Ora basta Signore! prendi la mia vita!».
Il profeta è disperato. Sì, perfino i profeti fanno l’esperienza di essere mendicanti di Dio: Dio non è un talismano, un oggetto, una polizza… Ti lascia perfino arrivare sull’orlo della disperazione, della tristezza, né ci deve stupire che anche il profeta sia un uomo che ha bisogno di comprensione, di amore. Anche l’uomo di Dio cerca il caldo abbraccio di un amico… invece è Elia è solo, inseguito, incalzato dai nemici… e arriva al punto in cui gli sembra di non farcela più, è stanco.
Sei stanco perché non puoi vivere senza pane, senza pane non sei libero.
Elia, come diciamo oggi con troppa facilità, è depresso, vorrebbe morire, non ha la forza di suicidarsi e chiede al Signore di prendergli la vita. Eppure è qui che irrompe il dono di Dio: Alzati mangia perché è troppo lungo per te il cammino.
Chissà quali mani amorose hanno offerto il pane al profeta! La situazione si ribalta grazie al dono di qualcuno che ha preparato una, due focacce per il profeta. Quel pane dice ad Elia che lassù qualcuno lo ama, che Dio gli vuole bene e così può alzare lo sguardo sul cammino che ancora lo attende.
Quelle mani sono le mani di Gesù, mani che donano il pane e che si donano e arrivano fino a noi, perché lungo tutto la sua vita ci riporta a quel segno, a quel pane spezzato, donato, mangiato.
Paolo nella seconda lettura, rivolgendosi alla comunità di Corinto che è abituata a ripetere i gesti della Cena del Signore, ricorda una cosa: certo siamo tutti mendicanti di pane, di libertà e di amore e Dio è la risposta al nostro desiderio d’amore, ma in Gesù comprendiamo e vediamo che c’è amore e amore. C’è un amore che rende schiavi, dipendenti, possessivi… Gesù sta lì al crocevia della storia umana e si staglia con la croce a dirci che l’amore, come il pane, non va prima preteso, conquistato, posseduto. L’amore come il pane rende liberi nella misura in cui si dona per primo.
Paolo raccontando della Cena del Signore, sembra mettere lì un inciso temporale, ma in realtà è fondamentale: Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito, prese del pane…. Gesù non si dona in un momento di consenso e di successo, in uno slancio di generosità… ma nella notte in cui venne tradito, in un’esperienza drammatica come quella del tradimento.
Il pane di Dio è dono nel cuore del tradimento, del fallimento dell’amore e della libertà. E questo ci fa pensare molto: a noi che cerchiamo amore, che desideriamo libertà, e che non siamo capaci di reggere una storia d’amore, non siamo nemmeno capaci di libertà e ci riduciamo ad essere cinici e disincantati, cosa ci rimane?
I nostri amori quando attraversano l’esperienza del tradimento, vanno all’aria, vacillano, si sbriciolano… L’amore di Dio, l’eucaristia lo ripropone ogni domenica, è fare questo in memoria di lui. Fare che cosa? impastare questo pane del nostro lavoro con l’acqua della delusione, del pianto, del dolore, del sacrificio, della rinuncia, del dono di sé.
È questa la forza del futuro. L’eucaristia non è semplicemente eseguire un comandamento del passato. Questo pane, dice Gesù nel vangelo, è la mia carne per la vita del mondo (v. 51).
Mentre noi celebriamo ora la memoria di Gesù che spezza il pane, che dona la sua vita e che condivide il suo amore… intorno a noi ancora oggi il pane fa la differenza tra il mondo dei poveri e quello dei ricchi: i poveri ne domandano sempre di più, i ricchi devono stare attenti a non mangiarne troppo… per la dieta, al punto che ormai il pane è pressoché bandito dalle nostre tavole: forse perché le modificazioni genetiche lo rendono sempre meno tollerabile… ma vorrà pur dire qualcosa di vero su di noi!
Vorrà pur dire qualcosa se nel mondo una persona su dieci è denutrita e una su quattro è in sovrappeso.
Non è che nella metafora di una civiltà che deve fare a meno del pane, leggiamo il fallimento delle nostre pretese e delle nostre autarchiche sufficienze?
La proposta di Cristo è altra: perché ci sia vita occorre che qualcuno faccia dono di sé, doni amore, affetto, tempo, energia… senza il dono di sé non c’è vita! Se vuoi vivere, dona. Se vuoi amore, perdona. Se vuoi comprensione, ascolta. Se vuoi comprensione, accogli… Se vuoi pace, dona un pezzo del tuo pane.
Questa è la proposta di Gesù che, prima ancora di diventare sacramento e eucaristia, narra il suo modo di essere, è il suo modo di stare al mondo. L’eucaristia è il modo di vivere di Gesù. È chiaro che quando prende il pane azzimo, come dice Paolo gli viene per così dire “normale” affermare: Questo è il mio corpo che è per voi! Perché per tutta la vita ha fatto così. Fate questo in memoria di me.
Ecco, dobbiamo riprendere la fedeltà a questo mandato, dobbiamo riprenderla nel nostro cuore per liberarci dalla tentazione dello scoraggiamento.
Anche per noi prima o poi arriva la tentazione di dire come Elia: «Ora basta!». Sapete bene come si traduce nel concreto il cedimento. Mica con il suicidio, tutt’altro, ma con lo star bene, col dire: «Chi se ne frega».
Chi di noi non conosce persone che anni fa erano prese dal fervore di cambiare il mondo e le cose ed ora sono sistemati. Hanno detto: basta, tanto non c’è niente da fare, è una pura illusione, tanto l’uomo è fatto così… Ecco qual è il crollo della speranza, che è il vero ateismo vissuto.
Uno che spera di camminare verso un regno nuovo non è mai un ateo, ma chi dice: non c’è niente da fare, questi sì che è un ateo.
Ecco perché, in momenti di scoraggiamento, quando le circostanze sociali ci buttano con violenza di fronte a dati di fatto, come l’indifferenza, il razzismo, la violenza e il cinismo che credevamo non ci fossero più, dobbiamo riprendere coraggio dentro, riprendere le misure della nostra vita e dei nostri giudizi sulla parola e sul dono d’amore di Cristo.
In realtà anche la tentazione di cedimento ci sta a ricordare che siamo tutti mendicanti d’amore.
(1Re 19,4-8; 1Cor 11,23-26; Gv 6,41-51)