III GIORNO DELL’OTTAVA DEL NATALE - San Giovanni Evangelista - Gv 21, 19c-24


Trovo che sia proprio bello celebrare oggi la memoria di san Giovanni apostolo ed evangelista, e sostare sul mistero del Natale di Gesù con la testimonianza e le parole di uno che, come scrive nella prima lettura, ha udito, ha veduto, ha toccato… il Verbo della vita, il Figlio di Dio.

E ci mette la firma al termine del vangelo, quando detta: questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte. Firma che viene confermata da chi materialmente scrisse sul papiro: E noi sappiamo che la sua testimonianza è vera.

Cerchiamo di comprendere il senso di queste parole, perché definirsi come il discepolo che Gesù amava e come quello che si era chinato sul suo petto nell’ultima cena?

A noi piacerebbe che almeno davanti a Cristo fossimo tutti uguali, e invece sembrerebbe che anche Gesù avesse delle preferenze… e allora diventiamo subito sospettosi di essere amati di meno, che ci possa mancare qualcosa.

Tutti nella vita abbiamo le preferenze, ci sono affinità che ci uniscono ad alcuni più che ad altri, e in questo non troviamo nulla di sbagliato. Il problema è quando a fare queste preferenze è Dio. Eppure è una costante nella Scrittura, infatti perché ha scelto Abramo, perché Mosè?

A ben guardare nella Scrittura le preferenze di Dio non sono mai per escludere, per stabilire dei privilegi di alcuni sugli altri. L’elezione da parte di Dio di qualcuno che sia il popolo eletto, siano i profeti… addirittura la stessa Maria e gli apostoli non è mai escludente, anzi la chiamata ha un orizzonte universale, Dio ha in mente tutti.

Il popolo eletto è tale non perché sia migliore degli altri, ma perché impari a servire la parola di Dio agli altri popoli. Maria è scelta per generare Gesù ma non per tenerselo in casa, piuttosto per donarlo all’umanità. I dodici sono scelti non perché siano migliori o più brillanti delle altre decine di migliaia di loro contemporanei, ma per essere, appunto, mandati e inviati anche al di fuori dei confini d’Israele.

Così il fatto che Giovanni venga definito il «discepolo amato», nulla toglie all’amore che Gesù aveva per gli altri. Anzi credo che proprio grazie a quest’amicizia intensa e profonda abbiamo potuto avere in dono pagine di Vangelo tra le più straordinarie.

Giovanni ha sempre ben presente questo orizzonte e non parla mai di un amore esclusivo come sospettiamo noi. Cosa gli impediva di mettere il proprio nome, anziché ricorrere sempre al criptico titolo di discepolo che Gesù amava? Credo proprio che volesse dire a ciascuno di noi: anche tu puoi essere un discepolo amato da Gesù.

Ma noi ci lasciamo amare da Cristo? Non abbiamo sempre da dovergli presentare le nostre fatiche, le nostre defezioni, le nostre incostanze? Ma noi ci lasciamo amare da Cristo?

È forse questo il grande dono che ci fa Giovanni: lasciamoci amare da Gesù. Abbiamo bisogno che l’evangelista ci ricordi questa cosa anche per ridimensionare l’atteggiamento tipico di Pietro – e che noi tutti abbiamo ereditato abbondantemente – del prendere l’iniziativa, dell’intervenire sempre e subito, del reagire con impulsività agli eventi, anche solo organizzare, pianificare, fare…

Così anche l’immagine un po’ inusuale di chi a cena sta appoggiato al petto di Gesù, cosa ci suggerisce se non di trovare tempo e voglia di stare cuore a cuore col Cristo, di respirare col suo battito, di palpitare del suo amore?

Ed è ciò di cui nella chiesa c’è sempre più necessità. C’è bisogno di Pietro, del garante della fede, del principio gerarchico, della custodia dell’unità della chiesa…, e potremmo dire dell’organizzazione pastorale. Ma forse oggi abbiamo ancora più bisogno di essere come Giovanni, c’è necessità di ribadire il principio carismatico, ovvero il semplice bisogno di discepoli che si lascino amare, che pongano al principio di tutto l’iniziativa di Cristo.

Al di sopra delle mille cose che possiamo immaginare per essere testimoni del Vangelo, ci sta l’essere discepoli amati.

Sembra proprio essere questo il problema cui vuol rispondere la prima lettera di Giovanni. Immaginiamo il discepolo amato ormai centenario a Efeso, che ha di fronte a sé una comunità ben organizzata, strutturata, ma che ha dimenticato l’amicizia del Cristo, l’umanità di Gesù, una comunità che fa, briga, realizza tante cose… ma dimentica l’amore di Cristo.

E a Giovanni non resta che attingere al principio della sua esperienza con Cristo: Quello che era da principio noi l’abbiamo visto, udito e toccato con mano! Ciò che sta al principio della fede è l’umanità di Gesù che ama.

Insisto sui verbi usati dall’evangelista: udire, vedere e toccare. C’è una forte concretezza che esalta i sensi nell’esperienza spirituale di Giovanni. Chissà quante volte sarà riandato con la memoria ai momenti in cui ha udito la parola di Gesù, lo ha visto muoversi nel suo ambiente e lo ha toccato come si abbraccia un amico, fino al momento in cui ha dovuto accogliere il suo corpo deposto dalla croce!

Ciò che sta al principio non è una dottrina, un insieme di valori, ma il fatto che il Verbo si è fatto carne, in lui Giovanni ha incontrato e toccato il Dio diventato umano. Ciò che sta al principio è l’umanità di Dio.

Un’idea la difendi e se sei intraprendente ti metti a fare propaganda. Ma le idee dividono, per le idee ci si può anche eliminare, si possono fare le cose peggiori e la storia ce lo ricorda costantemente.

C’è una comunione possibile, scrive Giovanni, la comunione che ha iniziato il Cristo nella condivisione della nostra umanità. Perché anche voi siate in comunione con noi e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo.

(1Gv 1,1-10; Gv 21,19-24)