VI DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 17, 7-10


Giobbe è famoso per la pazienza proverbiale, per cui risponde all’immaginario di chi sopporta pazientemente i dolori della vita in attesa che una giustizia divina sistemi poi le cose. Se rileggiamo la lista delle disgrazie in cui incappa in un solo giorno, siamo difronte a una sciagura da cui sarebbe difficilissimo riprendersi per chiunque di noi.

Si tratta chiaramente di una finzione letteraria che forzando la storia all’inverosimile, perché è a dir poco incredibile che nel giro di poche ore succeda che tutto il lavoro di una vita vada perduto, tutto quello che quell’uomo ha realizzato con impegno e onestà… diventi un niente!  I buoi, le asine e i loro guardiani, le pecore e i loro guardiani, i cammelli e i loro guardiani, i figli e le figlie tutto in un solo giorno finisce.

Allora non è solo questione di pazienza, perché non è che Giobbe stia ad aspettare una resa dei conti o un capovolgimento della situazione in suo favore. Le sue parole sono chiarissime, cristalline: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore. Molti avrebbero bestemmiato, imprecato, abbandonato Dio e la fede… invece quest’uomo sta come roccia salda al suo posto, non accampa pretese, affronta la situazione che è al di sopra di ogni immaginazione senza fare la vittima, senza dare la colpa a qualcuno o accusare il destino. Discute con Dio, si arrabbia con lui… ma alla fine sia di fronte agli amici che alla moglie, non fa altro che dire: ho fatto la mia parte, ho fatto il mio dovere, ho realizzato quello che avevo in cuore, e anche se tutto questo va perduto alla fine ciò che rimane, dopo una vita di sacrifici e di fatica, è la mia fiducia in Dio.

Mi piace pensare che Gesù avesse in mente la figura mitica di Giobbe quando pensava a noi come a quei servi che, anche nell’ipotesi improbabile in cui possiamo arrivare a dire: abbiamo fatto tutto quello che ci è stato ordinato, anche in quel caso ci riconosciamo servi ‘inutili’.

Ma il servo non è affatto inutile: cosa farebbe il padrone senza il servo? Ha bisogno di lui e del suo lavoro. E che diamine: ci manca solo che Gesù ci induca a un atteggiamento depressivo proprio di chi, abbassando la testa, ammette di non valere niente.

Atteggiamento di frustrazione tra l’altro più diffuso di quanto sembra. Penso ai genitori che dopo aver cercato di educare con tanta fatica i figli, quando questi sembrano abbandonare quella strada, arrivano a dire tristemente: abbiamo sbagliato tutto, non siamo stati buoni a niente!

Pensiamo agli anziani che trascorrono i giorni e le ore in solitudine, con la compagnia solo della tv e che arrivano a dire: a che serve la mia vita, è inutile!

È a questo che ci sospinge Gesù? A sentirci inutili? O piuttosto a vivere una fede senza utili?

Se teniamo sullo sfondo la parabola di Giobbe, credo proprio che Gesù ci chieda di essere servi senza utile, cioè servi che non hanno utili, non guadagnano nulla per il fatto di essere suoi discepoli.

Il mondo è fatto di interessi, la vita sociale è costruita sugli interessi, l’organizzazione micro come quella internazionale è volta ad armonizzare gli interessi degli uni e degli altri. Anche la vita psichica ci rivela che le nostre azioni nascondono sempre un interesse più o meno esplicito… così che abbiamo imparato la diffidenza nei confronti degli altri e quando qualcuno ci fa un favore, un gesto gratuito, un complimento, ormai siamo così smaliziati da pensare: perché fa questa cosa? che interesse ha? Dove vuole arrivare?

È facile, dice Gesù, che anche con Dio imbastiamo una relazione di interesse: lo si diceva facilmente una volta, anche con una certa ingenuità, che occorreva ‘guadagnarsi il paradiso’.

È come dire che Dio ha degli obblighi nei nostri confronti per il fatto che crediamo. È come se Gesù si deve sentire impegnato a ricompensarci con grazie e miracoli perché lo preghiamo… Non è questa la religione primitiva che comunque rende commerciale anche il rapporto con Dio o con l’immagine che noi ci siamo fatti di lui?

Siamo servi senza utile. È importante allora per noi capire di che servizio si parla. Se Gesù avesse voluto indicare un lavoro religioso, di culto, di chiesa, del tempio… avrebbe fatto l’esempio del sacerdote e del levita; se avesse voluto parlare del lavoro come la catechesi, la predicazione… avrebbe fatto l’esempio di uno scriba o di un rabbino… Invece ha preso ad esempio un servo che deve lavorare il campo e pascolare il gregge, il lavoro di Giobbe, dunque un lavoro ordinario, il lavoro di ciascuno di noi, che riguarda la vita quotidiana.

Oggi diremmo: che tu sia il responsabile ultimo dell’impresa o l’impiegato appena assunto, che tu lavori in casa, a scuola o in ospedale o in un Paese in via di sviluppo… fai il tuo dovere, fai quello che devi fare, sii un semplice lavoratore, fedele e libero, che non accampa utili davanti a Dio. questo ci rende liberi davvero.

(Gb 1,13-21; Lc 17,7-10)