V DOPO PENTECOSTE - Lc 9, 57-62
E noi? Possiamo riandare a quel giorno e quell’ora in cui abbiamo accolto una parola di Gesù che ci ha cambiato la vita? Possiamo dire di ricordare quando abbiamo avvertito l’invito di Gesù a seguirlo? Ricordiamo quando abbiamo scelto di fare del Vangelo la nostra guida?
Se i vangeli ci hanno trasmesso questi esempi di chiamata che non sappiamo come siano andati a finire, perché Luca non ci dice che replica abbiano dato i tre soggetti alle parole del Cristo, è per dire a noi discepoli o potenziali discepoli che quella di Gesù non è una semplice adesione a un insieme di valori, non è l’iscriversi in una religione diversa dalle altre, ma è un legame personalissimo con lui.
Vedete se Gesù avesse puntato sulla quantità, se avesse voluto acquisire più seguaci degli altri, la prima cosa semplice che avrebbe potuto fare era quella di insegnare qualche nuova idea su Dio e lasciare le persone là dov’erano.
Per questo è importante per noi avere nel cuore quel momento e quell’ora in cui abbiamo sentito sulla nostra pelle quel verbo che disambigua ogni velleità religiosa o pseudo tale: Seguimi! Non si dà anzitutto la necessità di capire, di avere nuove idee su Dio, ma di seguire Gesù, di camminare dietro a lui.
Seguire Gesù vuol dire legarsi a lui. Non basta un’idea di Cristo, una dottrina, una generica conoscenza religiosa… con un’idea si entra in un rapporto di conoscenza, di entusiasmo, forse anche di realizzazione, ma mai di un impegno personale di obbedienza e di affidamento.
Gesù potremmo dire che ricalca l’esperienza di Abramo, anzi l’aggiorna. Notiamo la progressione esigente con cui la parola del Signore chiama l’uomo delle steppe dell’Asia Minore: Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela, dalla casa di tuo padre.
È un imperativo progressivamente sempre più radicale, sempre più esigente: prima la terra, poi la parentela e infine la casa paterna. Proprio quelle appartenenze che fanno di noi quello che siamo: la terra, i legami e la famiglia… se invece di essere dei punti di arrivo, fossero proprio questi il punto di partenza? Se la benedizione venisse non dalla proprietà, dal possesso, ma dalla rimessa in circolo, dalla ricerca e dall’obbedienza a una parola che sospinge sempre oltre?
Abramo diventa così un apolide, uno spiantato, uno sradicato. Ma benedetto!
Sarà vera fede quella che noi spesso viviamo come il legame che ci radica in una tradizione, in una chiesa, in una cultura e in valori ben riconosciuti… o non piuttosto quella che ci sospinge a sradicarci, a metterci in cammino?
Perché se Dio non è un concetto, non è un’idea, ma è in relazione con noi, la sua relazione con noi non può essere confinata nelle nostre gabbie: non si chiude in una casa, non si blocca con i nostri legami, non abita i confini di una patria.
Tutte le volte che le nostre relazioni si chiudono, si ingessano, quando diventano proprietà e possesso si ammalano, si induriscono, si incancreniscono, alcune diventano addirittura violente e omicide.
Diventano benedizione invece quando sono libere, quando respirano quella libertà del Vangelo che Gesù con linguaggio indubbiamente paradossale chiede ai suoi tre interlocutori.
Se gli uccelli del cielo hanno i loro nidi, il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo, risponde al primo interlocutore che è disposto a seguirlo, ma ha delle aspettative per così dire “terrene”. Nel segreto del suo cuore custodisce un qualche interesse e traguardo.
Al secondo che vorrebbe seppellire il padre, cosa sacrosanta e prescritta dalla Torah, risponde in maniera che costringe a pensare: Lascia che i morti seppelliscano i loro morti.
Infine al terzo che appunto vorrebbe almeno congedarsi dai suoi legami, propone uno sradicamento totale: Lascia e non voltarti indietro.
Nell’appello di Gesù c’è dunque questo elemento di rischio da accettare che consiste nel lasciare progressivamente quelle certezze che ci costruiamo a fatica e che sono le nostre appartenenze: la terra, i legami e il padre, ovvero la famiglia.
Ma ci fosse almeno una promessa precisa, una garanzia di futuro. Invece, ed ecco l’altro elemento importante che contesta in maniera radicale il nostro approccio alla fede e all’evangelizzazione, ed è quello proprio di chi non ha un programma da realizzare.
Seguire Gesù non significa seguire un corso di laurea, un progetto politico, un programma di riforme prestabilito. La cosa che conta di più, ancora di più che non per come lo sia stato per Abramo, è l’obbedienza alla parola di Gesù giustificata solo dal fatto che compiendo questo passo si entra in comunione con lui. Con tutti i rischi che questo comporta: non c’è un programma da perseguire, un progetto che io inseguo a seconda dei miei gusti, del mio giudizio e che io posso giustificare in maniera razionale.
Finiremmo per annunciare il nostro modo di vivere la fede, la nostra propria idea di cristianesimo, la nostra esperienza cristallizzata nelle forme e nelle consuetudini che conosciamo e che ci appartengono. Ripeteremmo il già noto, quello che sappiamo, precludendoci la novità di Dio.
L’uscita del discepolo, come la partenza di Abramo, non è per andare a zonzo… ma per seguire Gesù. Seguire Gesù è dischiudere il regno di Dio che vive e cresce nella storia, perché anche nei luoghi più improbabili cresce un seme, ma se non abbiamo occhi che sanno vedere, non ci renderemmo conto di come e di quanto sta accadendo.
Ora cosa intendiamo oggi per sequela è affatto semplice e scontato. Fino a ieri poteva essere intesa come sequela esclusivamente la vita del prete, delle religiose, del consacrato in genere… ma quello è un modo, uno dei tanti possibili che non esaurisce la sequela di Cristo.
Tant’è che già intorno a sé Gesù chiama alcuni come discepoli, altri come apostoli, ma poi ci sono anche gli amici che pure lo accolgono in casa loro, pensiamo a Marta, Maria e Lazzaro e che non hanno lasciato tutto, ma seguono Gesù e gli offrono accoglienza e ospitalità.
Ci sono anche quelli che potremmo oggi chiamare i simpatizzanti, come Nicodemo ad esempio che guarda a Gesù con simpatia e interesse e nemmeno lui lascia tutto in senso letterale…
Tutti hanno in comune questa dimensione costitutiva che deriva dall’incontro con Gesù e siccome lui è l’uomo che cammina, tutti per seguirlo, ciascuno a proprio modo, sono costretti a camminare dietro a lui.
E camminare dietro a lui, significa stare in quella condizione per cui attraversi i campi della vita senza lasciarti spaventare, senza che le cose ti travolgano, senza che l’ansia e la paura prendano il sopravvento, e senza appoggiarti alle cose, ai confini, ai legami chiedendo ad essi di darti quella sicurezza che viene dalla profonda amicizia del Cristo.
Quante volte mi è stato chiesto: Perché ti sei fatto prete? E la risposta di volta in volta è stata un balbettio di circostanze, di cause, di contesti… Una volta sola, ma lo ricordo come fosse ieri (era il 16 agosto 2004) perché a chiedermelo fu un insegnante che conobbe don Mazzolari, che mi domandò: Chi ti ha fatto prete? La domanda era proprio: Chi?
Questa fa la differenza di comprensione perché anzitutto il prete non sei tu a scegliere di farlo, ma sei reso tale da un Altro e poi perché sei rimandato alla relazione che precede l’esercizio di un qualsiasi ministero. È la relazione col Cristo che è decisiva. Poi fai il prete, il papà, la suora, la mamma…
La cosa che conta è stare al passo con lui. Voltarsi indietro vuol dire che il tuo sguardo, ma ancor prima il tuo cuore, e appunto puoi essere prete o meno, cerca altro mentre l’aratro, diremmo oggi la macchina, va a sbattere.
Non puoi guardare la vita dallo specchietto retrovisore: “avrei potuto fare”, “avrei potuto dire”, “avrei…”! Affidati al Signore oggi, arrischiati con lui e tieni fisso il tuo sguardo dietro a lui e vedrai che il Signore ti darà un campo da coltivare oltre ogni tua immaginazione.
Allora sarai, come Abramo, benedizione: sguardo di Dio sulla nostra povera vita; sorriso di misericordia per i nostri errori; abbraccio di affetto che vince la paura e l’ansia.
(Gen 11,31-12,5; Lc 9,57-62)