V DOPO PENTECOSTE - Lc 9, 57-62


Potremmo raccogliere le tre letture di oggi intorno a un’espressione che è entrata ormai a far parte del gergo cristiano, del linguaggio comune nelle chiese e nei gruppi cristiani: il cammino di fede. Abbiamo sentito di Gesù che è in cammino, così anche Abramo giganteggia con la coraggiosa uscita dalla sua terra per mettersi in cammino… come anche la lettera agli Ebrei ricorda: Abramo chiamato da Dio obbedì partendo per un luogo.. senza sapere dove andava! (11,8).

Insomma è una bella espressione, ma come tutte le formule e le parole subisce anch’essa il logorio e l’usura, al punto che oggi pensiamo di essere in cammino ma in realtà siamo fermi. Ci siamo sclerotizzati in alcune abitudini, ci siamo fissati in alcune formule, crediamo di credere per il fatto che leggiamo un articolo, facciamo una donazione o qualcosa del genere.

È allora necessario ascoltare la parola di Dio che ci restituisce al confronto con figure come quella di Abramo, un personaggio che anche Gesù nel vangelo in maniera un poco ermetica richiama, non solo per il fatto che è in movimento, e lo è per davvero.

Abramo è sempre in movimento, è sempre per strada, mosso dalla parola di Dio attraversa l’oriente da nord a sud, passa il Giordano, risale fino a Sichem attraverso la cosiddetta valle dei Patriarchi, da Sichem ridiscende a Betel e poi giù fino al Neghev… Quest’uomo rimane l’icona per eccellenza del migrante.

Cosa sospinge Abramo a uscire dalla sua terra, dalla sua parentela e dalla casa di suo padre? Notate questo triplice incalzare che esige un distacco, quasi una progressione che lo sradica non solo dalla terra, ma anche dai legami sociali, fino addirittura dagli affetti più intimi, dalla casa di suo padre.

Cosa sospinge appunto Abramo a mettersi in strada?

Gli storici potrebbero dirci che nel XV sec. A.C. ci furono forti migrazioni in tutta l’area, perché da che mondo è mondo la gente va dove c’è il pane, dove c’è la pace. Uno per vivere è disposto ad attraversare deserti e a solcare mari ed è disposto a mettere a repentaglio la propria vita e quella dei propri cari perché non ha altre possibilità di futuro.

Per dirla in termini contemporanei, non so se possiamo considerare Abramo un migrante economico, oppure se si gli si possa riconoscere lo status di rifugiato o se invece fosse mosso semplicemente dal desiderio di sviluppare le sue attività commerciali… Quello che è certo è che dentro una di queste condizioni o qualsiasi altra possibile, Abramo avverte una promessa.

Dentro ogni condizione umana c’è una promessa. Mi sembra questa già una prima considerazione che dà senso ai termini cammino di fede. Il cammino di fede non è l’itinerario didattico e catechistico, con un programma a tappe ben preordinato, con obbiettivi e mete ben chiari, il cammino di fede è camminare sulle strade della vita e in qualsiasi condizione uno si possa venire a trovare, in qualsiasi situazione abbia ad impattare dentro lì può ascoltare una promessa.

Non è sempre facile, né immediato, ma quello che sospinge Abramo e che lo rende nostro padre nella fede, è propriamente questa sua attitudine: ascoltare la promessa che la vita custodisce dentro involucri talvolta coriacei, complessi, dolorosi e difficili.

Ma ci vuole una parola che venga pronunciata da fuori affinché uno possa accogliere la promessa. Il cap. 12 della Genesi inizia proprio così: Il Signore disse ad Abram. Non ci sono mediatori. L’Eterno parla dentro la tua situazione Abramo. La promessa è annunciata da Dio solo se tu sei disposto ad ascoltarla.

Di fatto Abramo non è il primo cui Dio rivolge la parola. Egli ha già parlato all’umanità fin dalle origini… ma con Abramo è diverso. Qui non ci sono divieti, peccati da espiare, richieste di conversione come ai tempi di Noè. Non è difficile sentire nel segreto della nostra coscienza la voce divina che ci accusa o ci rimprovera, come è successo ad Adamo o a Caino.

Il senso di colpa ti paralizza, ti rivolge indietro al passato, ti avvita tu stesso. La parola di Dio non è una voce che ricorda il passato e che induce a fare i conti con la propria coscienza, ma annuncia che nella tua situazione c’è una promessa e la promessa ti proietta in avanti, ti fa alzare lo sguardo sul futuro. La voce di Dio viene dal futuro. Potremmo dire: è una vocazione, se anche questo termine non si fosse sclerotizzato.

Abramo vai, se vai sarai benedetto tu e sarà benedetta l’umanità. E Abramo vivrà talmente alla lettera questa promessa che parte senza sapere dove andare.

È importante che Abramo non abbia una mèta o che la mèta gli resti sconosciuta. Perché quello che conta non è il termine del cammino, del viaggio, ma quello che succede durante il cammino, durante il viaggio. Dio ti porta a un punto, anzi a quel punto in cui non puoi più né tornare indietro, con le tue forze, né andare avanti, con le tue forze, ma devi fidarti di lui, fidarti della promessa, dell’alleanza come dice la teologia biblica.

Ed è quello che succede in maniera paradigmatica nei tre incontri che Gesù fa, secondo il vangelo di Luca, proprio mentre è per strada. Non siamo su una strada qualsiasi. Nei versetti immediatamente precedenti si dice che Gesù mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme, Martini rese famoso questo versetto citandone la versione latina «firmavit faciem suam» (9, 51-52).

Gesù è determinato a intraprendere la strada per Gerusalemme, si mette in cammino in obbedienza alla parola del Padre, fedele alla sua promessa… come Abramo prosegue il suo itinerario affatto lineare e scontato. Ma su questa strada ci siamo anche noi che vogliamo stare con lui e nei tre incontri narrati dal vangelo ritroviamo la triplice richiesta di sradicamento, di distacco, di affidamento.

Al primo personaggio che gli dice di volerlo seguire dovunque lui vada, Gesù risponde di non avere nemmeno un pezzo di terra, nemmeno uno straccio di casa… Non era questa la prima richiesta fatta ad Abramo: esci dalla tua terra?!

Nel rispondere al secondo personaggio che chiede del tempo per seppellire il padre, Gesù fa eco alle parole rivolte ad Abramo: il padre di Abramo è morto davvero quando il figlio è partito per continuare un viaggio che lui non aveva più la forza di proseguire, quando il figlio è andato più avanti di lui, quando è stato abbastanza maturo per lasciare la casa paterna e le relazioni affettive, come dice al terzo che lo vuole seguire.

Il distacco dalla terra, dal padre, dagli affetti famigliari, il distacco dalla protezione affettiva, legale, economica… è il coraggio di Abramo, è il coraggio che viene chiesto al discepolo che segue Gesù. D’altronde l’immagine dell’aratro è significativa: per tracciare diritto il solco non bisogna guardare indietro, ma in avanti, verso il punto d’arrivo.

C’è un bellissimo midrash che paragona Abramo a un vasetto di olio profumato. Finché stava fermo, non se ne sentiva il profumo, ma una volta smosso dal suo posto espandeva profumo dappertutto. Era dunque necessario che Abramo lasciasse la sua terra, la sua casa, i suoi legami per portare al mondo la benedizione di Dio.

Da qui possiamo trarre due spunti per la nostra vita: anzitutto guardiamo così a tutti coloro che sono in cammino, ai migranti, alle persone che muovendosi portano la benedizione di Dio. Per l’organizzazione politica e civile sono un problema da gestire, ma per chi guarda le cose con gli occhi della fede sono tanti Abramo che ci vengono a ricordare che solo lasciando terra, casa, padre e madre… vai incontro alla promessa.

Succede così che se siamo davvero in cammino, la nostra sequela di Gesù arriva ad un punto in cui non possiamo più né tornare indietro, con le nostre forze, né andare avanti, con le nostre forze, ma dobbiamo fidarci di lui.

Ed è a questo punto che emerge la verità di noi stessi: possiamo andare avanti soltanto fidandoci totalmente di lui, senza voltarsi indietro.

(Gen 11, 31-12,5; Eb 11, 1-2.8-16; Lc 9, 57 62)