VI DOPO IL MARTIRIO DI S. GIOVANNI IL PRECURSORE - Lc 17, 7-10


Non ci piace, proprio non suscita in noi grande entusiasmo questa parola di Gesù: Siamo servi inutili!

Non ci piace e a ragione dovremmo discuterne con lui! Cosa intendeva dire il Signore? Anzitutto per definizione il servo non è inutile, anzi il servo “serve”! È assolutamente necessario per svolgere le funzioni che gli sono state affidate.

E poi dobbiamo anche dire che nessun essere umano è inutile! Sia pure di fronte a quelle condizioni di vita che tante volte ci fanno gridare: che senso ha? Non serve a nulla soffrire in quel modo, quando non c’è possibilità di ripresa e la vita non ha più quelle qualità che vorremmo… appunto ci domandiamo: a cosa serve?

Non serve a niente. Nel senso che una persona così non produce più, non c’è relazione, non si dà un margine di dialogo… eppure anche di fronte a queste condizioni il vangelo ci insegna a stare con rispetto, è un grande mistero. Nessun essere umano è inutile, ogni vita – per quanto noi non riusciamo a darle senso – ha davanti al Signore un valore, è comunque un dono suo.

Ne abbiamo un esempio emblematico nella prima lettura, nella storia di Giobbe che, se lo spogliamo di quella precomprensione che lo accompagna con l’etichetta come eroe della pazienza, piuttosto Giobbe dà voce alle nostre impazienze e incomprensioni.

In un giorno succede tutto: Giobbe è nudo. In un baleno perde ricchezze, beni, figli, amici e le sue ragioni di vivere. Colpi crudeli in serie, disastri a catena. Dalle mandrie di buoi, alle greggi di pecore, ai cammelli… perfino i figli improvvisamente nel fiore della loro giovinezza, tutti insieme vengono travolti e muoiono!

Quando arrivano gli amici devoti che hanno sempre una risposta per tutto, Giobbe non ci pensa due volte a zittirli. Il loro ragionamento va sempre nel cercare una colpa per ciò che è accaduto: “Vedrai che qualcosa hai fatto, magari di nascosto… hai combinato qualcosa per meritarti questo”. E Giobbe: Siete tutti consolatori molesti. Mettetevi al mio posto invece di chiacchierare a vanvera (16, 2-3) e continua: Le vostre parole sono scontate… io voglio parlare, con Dio voglio contendere (cap. 13,3)

Infatti nel contendere con Dio non gliele manda a dire: “Me ne stavo tranquillo e tu mi hai rovinato” (16,12); “Spietato mi trapassi il cuore” (16,13); “Ti sei fatto mio aguzzino, col vigore della mano mi osteggi; mi scagli in aria e mi fai precipitare” (30, 21-22).

Altro che pazienza! Indubbiamente non dimentichiamo che Giobbe è una figura letteraria, una figura che viene via via spogliata di tutte le sue certezze, dei suoi meriti, dei suoi successi… finanche della sua idea stessa di Dio, di un Dio che distribuirebbe i suoi favori e le sue benedizioni a chi è buono e giusto, e che invece dovrebbe castigare i malvagi.

Forse proprio qui possiamo trovare un primo significato di quell’aggettivo inutile che speriamo possa trovare in futuro una traduzione migliore. Non è inutile né il dolore, né la sofferenza di Giobbe, come quella di nessun altro. Così come nessuna vita è inutile. Piuttosto Giobbe ci aiuta a entrare in quella condizione per cui impariamo a non pretendere nulla da Dio per il fatto che lo abbiamo amato, che lo abbiamo servito e che lo abbiamo pregato.

Giobbe nel finale del primo capitolo anticipa la conclusione della sua vicenda dicendo: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!

È come dire: il servo fa’ la sua parte, compie il suo dovere e non ha pretese. Non ha da aspettarsi chissà quali vantaggi o privilegi perché è credente, perché prega, perché ama.

C’è un passo del Primo testamento dove nel testo greco ritorna l’aggettivo inutile  (akreios) ed è l’episodio in cui il re Davide talmente esaltato e felice di aver condotto l’arca dell’alleanza in Gerusalemme che si era messo a ballare come un forsennato, ridotto letteralmente in mutande, davanti a tutto il popolo. Quando tornò a casa la sera Mical, figlia di Saul, gli fece la morale: Come si comporta il re davanti al popolo, si mette a ballare e rimane in mutande! E Davide rispose: L’ho fatto per il Signore, ho ballato per lui… anzi mi abbasserò anche più di così e mi renderò vile ai tuoi occhi (2Sam 6,22)!

Qui la traduzione dice vile e non mi pare nemmeno molto azzeccata. In realtà anche Davide intendeva dire di non aspettarsi una qualche considerazione da parte di lei. Davide agendo così non aveva la pretesa che lei lo potesse capire e comprendere!

Possiamo dire che il significato più vicino al pensiero di Gesù dell’espressione “siamo servi inutili, potrebbe essere quello di un servo senza pretese, che non si dà delle aspettative nei confronti di Dio, non pretende che in base ai propri meriti Dio gli debba qualcosa! Siamo servi che non si aspettano la ricompensa, infatti continua Gesù, abbiamo fatto quanto dovevamo fare.

Ma possiamo fare ancora un approfondimento, perché se andiamo a leggere i due versetti che precedono il vangelo di oggi, ci rendiamo conto che queste parole sono la risposta a un appello che gli apostoli rivolgono a Gesù: «Accresci in noi la fede!».

E Gesù sembra rispondere: volete avere una fede grande? Cominciate a non pretendere che Dio vi faccia grandi, ma umili, liberi servi del Vangelo senza aspettative di successo, di gloria, di onore.

L’invito è rivolto agli apostoli, al gruppo in quanto tale e non semplicemente a degli individui. Essere semplicemente servi e basta, è un invito alla Chiesa, alla comunità cristiana affinché si ponga in un atteggiamento di umiltà, di libertà di fronte alla missione che il Signore le ha affidato.

Scriveva Martini nel discorso di s. Ambrogio del 1997, proprio a partire da questa pagina evangelica: «Il riconoscerci servi inutili rende liberi e sciolti nel presente: liberi dal peso insopportabile di dover rispondere a ogni costo a tutte le attese, di dover essere sempre perfettamente all’altezza di tutte le sfide storiche di ogni tempo. Questa libertà e scioltezza ci rende umili e modesti, disponibili a fare quanto sta in noi… con semplicità e senza pretese».

Ed è un messaggio ancora in controtendenza, perché in fondo la società umana è sempre, in un modo o nell’altro e con nomi diversi, quella dei servi e dei padroni: il padrone si fa servire per primo, mentre il servo mangerà e berrà più tardi. Il servo che si sente inutile, diventa facilmente un servo risentito, frustrato e in qualche maniera non mancherà di avere le sue rivalse con il suo Signore. Un servo inutile che non si sente amato, considerato dal suo padrone, prima o poi la farà pagare a quelli che sono sotto di lui!

Gesù è il primo padrone che si mette invece a servire i suoi servi, rendendoli suoi amici. È il primo che si cinge il grembiule e lava loro i piedi.

Quando gli apostoli domandano al Signore di accrescere la fede, sotto sotto domandano di poter essere più sicuri, più forti, più potenti, più capaci… ma Gesù non sa cosa farsene di una Chiesa così. Se aveste fede come un granello di senape potreste trapiantare un gelso nel mare! Ma a cosa serve trapiantare un gelso in mare? A nulla!

Non chiediamo di aumentare la fede, di crescere di numero, di contare di più… chiediamo al Signore di essere servi, semplicemente servi del Vangelo, non tocca a noi portare avanti la salvezza del mondo, ci pensa Dio a questo.

«Siamo sì servi inutili, inadeguati, però possiamo essere umili e grati e diventare servitori pazienti e umili nella vita quotidiana, sfuggendo all’egoismo e alla frustrazione» (C. M. Martini).

(Gb 1,13-21; Lc 17,7-10)