VI DOPO PENTECOSTE - Gv 19, 30-35
Ascoltando le parole di Giovanni ci pare di essere lì ai piedi della croce di Gesù e di stare, in quel tragico venerdì prima di Pasqua, davanti a un’enorme ingiustizia: un uomo buono, un uomo di Dio che non aveva fatto niente di male, non aveva rubato, non aveva ucciso, non era stato violento, né corrotto, anzi a detta di tutti, sia che fossero suoi discepoli o meno, l’avevano visto fermarsi a curare le persone, a dare compagnia e affetto a chi era stanco e solo, a preoccuparsi di donne e d bambini, di malati e di esclusi… eccolo lì reso del tutto impotente. Un amore crocifisso.
Se potessimo provare anche solo per qualche istante a pensare cosa passava nel cuore e nella mente di Giovanni o alle parole che poteva dire a Maria, la madre di Gesù che stava lì al suo fianco, non potremmo che parlare di stordimento!
Pare di essere di fronte a un mondo capovolto, a un mondo alla rovescia. Come si può uccidere l’amore? Come si può crocifiggere il bene?
Eppure è stato possibile, lo è sempre, ogni giorno. Anche oggi.
Pensiamo ai martiri cristiani che nella storia hanno dato la vita per la fede e a quanti oggi nel mondo ancora sono perseguitati in nome della fede, della dottrina e del credo, e siamo sconvolti da questo per come si possa ancora uccidere qualcuno per le sue idee…
Ma dobbiamo anche riconoscere che se pure permane una persecuzione per la fede, ogni giorno di più cresce la persecuzione per l’amore, per chi ama, per chi si spende per l’altro. Una persecuzione che curiosamente è trasversale a tutte le appartenenze, a tutte le etichette, perché l’amore è ciò che di più umano possiamo vivere e non può essere indossato da un abito troppo stretto che abbia la taglia del nazionalismo, dell’etnia, della religione, delle tradizioni… Oggi sempre più è l’amore ad essere perseguitato.
Se riflettiamo bene è stato così anche per Gesù: il motivo formale della sua condanna a morte al processo giudaico era stato per una questione di “fede” per il fatto di essersi considerato “figlio di Dio”, se non Dio stesso. Ma quello è stato il pretesto formale per togliere di mezzo una vita che ha dato fastidio, per zittire una parola che ha scardinato l’ipocrisia del potere, per limitare un atteggiamento libero che ha preoccupato la cabina di controllo fatta dai sacerdoti e dai potenti, per bloccare una predicazione che ha posto la persona, l’essere umano, al di sopra anche della legge del sabato!
Tutto questo messo insieme era troppo. L’amore era troppo.
E Giovanni lo vede morire così, senza resistere, senza scappare. Inerme, braccato. Mentre sembra di sentire i rumors dei social di allora: “Ecco che fine fa un idealista. Non sapeva che il mondo non lo si può cambiare? Ha fallito come tutti, come tutti quelli che prima di lui ci hanno provato”.
Ma allora ad essere coerenti dovremmo dire che Dio stesso ha fallito, sempre. La storia ce lo sta a ricordare. Basti per tutti il racconto dell’esodo: prima di dare i comandamenti, prima di dare la legge, la Torah, l’insegnamento per eccellenza, Dio era stato fedele alla promessa fatta ad Abramo e aveva mantenuto l’alleanza facendo uscire il popolo dalla schiavitù d’Egitto, dalla sottomissione al faraone, dalla terra d’esilio. Se non è amore questo!
E la legge stava dentro questa alleanza che era un segno d’amore molto concreto, vero, reale, al punto che divenne l’esperienza fondativa del culto e della preghiera. La pasqua cos’è se non il memoriale di quella liberazione che è un atto d’amore dell’Eterno?
Ma si sa, l’uomo è smemorato e infedele, così come dimentica di rispettare e custodire il creato dono di Dio, facilmente si dimentica di quanto amore è stato capace l’Eterno, perdendo il senso della risposta di responsabilità, perché la Torah aveva questo scopo di far sì che la vita del popolo rispecchiasse in qualche modo l’amore di cui era stato destinatario.
I comandamenti erano per così dire le clausole dell’alleanza, del berit, del testamentum. Nell’osservare i comandamenti, dimostri quanto ricordi di essere stato amato da Dio e con la tua vita fedele a quella legge, perpetui l’amore di Dio. Ma, appunto non è proprio così, anzi. La storia del popolo ebraico, ma tutta la storia dell’umanità è una storia di infedeltà, di dimenticanza dell’amore, di trasgressione dei comandamenti.
A questo poi si aggiunga l’autoinganno dell’uomo religioso convinto che il culto possa restituire a Dio quella gratitudine che la vita e la testimonianza concreta non riescono a dare. E così si sacrificano animali, agnelli e buoi, colombe e capre… si moltiplicano le parole nel tempio e le pratiche religiose, poco importa se nella vita sociale regna l’ingiustizia, se le trame di potere schiacciano i piccoli e i giusti, se la violenza è la legge per scalare la piramide sociale…
Giovanni sotto la croce osservando come muore Gesù e avendo visto la mattina di Pasqua, subito dopo Maria di Magdala, il sepolcro vuoto, ricorda le parole dell’ultima cena quando il Signore prendendo il calice del vino disse: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, versato per voi (Lc 22, 20).
Comprende dunque che c’è un nesso teologico tra il sangue che lui stesso ha visto uscire dal fianco di Gesù crocifisso e il calice cui ha attinto nell’ultima cena: l’uomo disattento vede il sangue versato e pensa alla morte, ma Giovanni vedendo che Gesù è morto, eppure continua a versare sangue ed acqua, comprende che qui c’è il dono di una vita che non muore mai.
Comprende che la fedeltà di Dio non è fallita, anzi! Quello di Gesù non è un sacrificio espiatorio, secondo Giovanni è il dono che Gesù fa di sé stesso, mostrando agli uomini con quale amore sono amati, per questo la chiamiamo nuova ed eterna alleanza. Non cancella la fedeltà di Dio della prima alleanza, anzi la porta fino in fondo, fino al compimento.
Infatti il segno dell’acqua ricorda a uno come Giovanni che bene conosce la Scrittura che il tempio da cui scaturisce la sorgente d’acqua viva come diceva Ezechiele (47,1), ora è il corpo di Gesù, è lui il nuovo tempio che gli uomini vogliono distruggere, ma che Dio in tre giorni ricostruisce. Proprio per dire che è l’essere umano il tempio di Dio, ogni essere umano che si dona e che ama è la presenza di Dio.
E questo si rende possibile perché proprio laddove si ha il massimo della violenza, del peccato, del rifiuto di Dio, del giusto che viene condannato, della volontà di espellere Cristo da questo mondo, proprio allora si ha il dono dello Spirito, il dono della vita! Proprio lì dove sembra prevalere il male, la violenza e l’odio, Gesù dona e ama fino in fondo. Contempliamo di più questo amore!
E noi contemplando il Crocifisso impariamo a stare così nelle contraddizioni e nelle brutture della storia del mondo, affinché lì dove sovrabbonda il male, il peccato, l’odio e la violenza, sull’esempio di Gesù possiamo lasciare che l’amore sia l’amore, quello che non muore mai.
Come diceva Francesco Saverio Borrelli, il magistrato simbolo della lotta alla corruzione: «Ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave» (discorso inaugurale dell’anno giudiziario come procuratore generale della Corte d’Appello, 12 gennaio 2002).
Ora noi tutti abbiamo bisogno di unire le forze per resistere, perché da soli non riusciamo a fare argine all’ondata di odio e di violenza che avvolge la nostra società. Se vogliamo costruire un mondo diverso, un’umanità diversa dove la parola data è davvero una parola seria, dove il rispetto e l’ascolto dell’altro sono insegnati in ogni casa e in ogni scuola, se vogliamo un mondo diverso in cui tutti siano trattati alla pari a dispetto del loro sesso, del loro credo, della loro nazionalità… un mondo libero dall’industria militare, un mondo privo di campi profughi, un mondo capace di aprire scuole e non prigioni… se vogliamo un mondo così, se vogliamo lavorare per un’umanità che sia degna di tale nome, tocca a noi.
«Se non noi, chi? Se non ora, quando?» (Hillel).
(Es 24, 3-18; Eb 8, 6-13; Gv 19, 30-35)