VI DOPO PENTECOSTE - Lc 6, 20-31
(Es 33, 18-34,10; Lc 6, 20-31)
Oggi incontriamo un altro grande personaggio della Scrittura. Dopo aver ascoltato il racconto della creazione, la storia del peccato di Adamo e di Eva, la vicenda del diluvio e di Noè, domenica scorsa abbiamo sentito del grande padre Abramo, che è un personaggio singolare, nel senso che è un individuo che emerge dal fiume della storia umana per la sua fede, da lui nasce il popolo, ma lui è solo.
Mosè invece entra in scena come parte integrante della storia di un popolo, di una comunità itinerante che con tutte le sue contraddizioni segue Dio. E questo fa la differenza con Abramo, perché fino a quando uno tratta con il suo Dio, parla con lui… la questione della fede è molto personale. Con Mosè la fede è molto diversa dal semplice dialogo con Dio, perché Mosè si trova a svolgere due ruoli ugualmente difficili: in alcuni momenti rappresenta Dio presso Israele, in altri rappresenta il popolo davanti a Dio, fa da portavoce del popolo nei confronti del Signore. E questo comporta che sia soggetto all’accettazione o al rifiuto della sua gente, alla pigrizia o alle resistenze del suo popolo.
Mosè sta dentro questo dramma, come dice un midrash: «Solo litigando con il suo popolo, Mosè divenne uomo di Dio». Perché lui è in mezzo, da una parte Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà (v.6)e dall’altra un popolo che ha appena fatto l’esperienza di essere liberato dalla schiavitù e al quale Dio ha chiesto come segno di gratitudine di rispettare le dieci parole, la Legge… e invece non passano nemmeno quaranta giorni (24, 18), che già sente la nostalgia dell’Egitto e si fabbrica un vitello d’oro, come quelli che avevano visto nei templi dei faraoni.
Quando nella pagina di oggi sentiamo Mosè rivolgersi all’Eterno per chiedergli: «Mostrami la tua gloria», ovvero «fatti vedere a me», è perché quest’uomo di Dio è davvero provato, sembra dire al Signore: io non li capisco più, almeno tu dimmi che sto facendo bene e che sei dalla mia parte. Quante volte anche noi presi dalle tensioni, dalle incomprensioni della vita vorremmo un chiaro segno della volontà di Dio. Un segno che dia ragione a noi, che ci confermi nella nostra condizione.
Questo è il contesto della pagina dell’Esodo ed è importante tenerlo presente perché quando leggiamo la pagina di Luca delle quattro beatitudini e dei quattro «guai», dobbiamo sapere che queste sono le parole di Gesù che esprimono la sua reazione alla situazione nella quale si viene a trovare, che è una situazione molto vicina a quella di Mosè. Gesù è circondato sì da persone che lo ascoltano, che lo cercano per essere guarite… ma ci sono anche persone che non lo accettano, anzi che lo minacciano. Ed è a questo punto che Gesù comincia a parlare come uno che da una parte si sente respinto e bandito dai grossi partiti che lo contestano e dall’altra è assediato dalle folle e dai discepoli. Da questa prospettiva potremmo dire che il primo beneficiario delle beatitudini è Gesù stesso. Egli è l’inviato da Dio che sta vivendo una condizione di emarginazione ed è fatto oggetto di ostilità che gli è riservata a causa della sua obbedienza al Padre.
Questo mi fa pensare a due considerazioni per la nostra vita. Prima considerazione: nessuno di noi ha mai visto Dio. Ma è anche vero che se osserviamo la nostra biografia, se leggiamo la nostra vita non con lo sguardo dell’efficienza, ma con quello della fede, possiamo riconoscere il passaggio di Dio in alcuni frangenti della nostra esistenza. Solo a distanza di tempo, possiamo ripensare ad alcuni eventi e dire: forse proprio in quel momento il Signore mi ha preso per mano, mi ha fatto sperimentare la sua misericordia e il suo amore.
Mosè chiede di poter vedere il volto di Dio proprio nel momento in cui si rende conto che il popolo essendosi costruito un vitello d’oro ha tradito la fiducia e quindi l’Eterno potrebbe ripudiarlo. Mosè soffre perché vuol vivere con la gente; se si contentasse del dialogo con Dio, potrebbe starsene tranquillo, ma il suo coinvolgimento ad un certo punto lo stritola e chiede di vedere la gloria (in ebraico la parola gloria è della stessa radice del verbo essere pesante, avere peso), domanda di vedere il peso di Dio nei fatti contraddittori della storia umana.
Il Signore risponde con le parole: «Farò passare davanti a te tutta la mia bellezza / bontà». È importante notare che Dio usa il termine passare per descrivere il modo in cui si manifesterà a Mosé. Dio non dice: io starò davanti a te, ma farò passare tutta la mia bellezza/bontà davanti a te. Il Dio che incontra Mosè è un Dio che passa, un Dio che si muove, non è statico. Il vitello d’oro è una statua immobile che ha bisogno di essere portata a spalle. L’idolo è statua muta, Dio passa e parla. L’idolo è un surrogato e fa quello che tu gli chiedi, ma Dio cammina con te e tu puoi camminare dietro a lui.
Ma perché Mosè – posto nella cavità della roccia – potrà vedere l’Eterno solo di spalle? Perché non può vedere Dio faccia a faccia, ma solo di spalle? Quand’è che noi vediamo le spalle dell’altro? Quando gli stiamo dietro. Così Mosè vede le spalle di Dio perché l’Eterno cammina davanti a lui. Il modo di vedere l’Eterno è seguirlo, stargli dietro, camminare dietro a lui proprio quando non riesci a comprendere, non te ne fai una ragione.
Così anche noi, se vogliamo vedere il passaggio di Dio, abbiamo bisogno di metterci come Mosè nella «cavità della rupe», nel santuario della coscienza, nella preghiera e nella meditazione per contemplare la sua storia con noi, per imparare a riconoscere la bellezza della sua presenza nella nostra biografia malconcia!
C’è poi una seconda considerazione che viene dal vangelo. A chi vuole vedere Dio, a chi cerca in qualche modo il suo volto, non solo come Mosè dobbiamo imparare a stare dietro a lui, a fidarci di lui, ma Gesù dicendo: Beati voi poveri perché vostro è il regno di Dio, beati voi che ora avete fame … beati voi che ora piangete … ci annuncia che il volto di Dio è nel povero. L’Eterno è laggiù in Somalia, in Nigeria… è nella corsia d’ospedale qui vicino dove l’umanità piange … è nelle famiglie palestinesi che piangono i loro bambini, è sui barconi che attraversano il Mediterraneo. Vedere le spalle di Dio significa guardare il fardello che gran parte dell’umanità porta sulle proprie spalle: Dio ha quelle spalle lì, lì c’è il regno di Dio.
C’è un’altra parte di umanità che invece se la gode, ma per essa bastano le parole del Signore (guai), ripetute quattro volte, tante quante le beatitudini e io non ne aggiungo altre. Perché se tu dici di vedere e di amare Dio, ma non vedi e non ami l’uomo, non stai vedendo l’Eterno, bensì un suo surrogato, un idolo. Allora, se diciamo di amare Dio, amiamo anche tutto ciò che il Padre ama. Ameremo dunque anche i nostri nemici, perché il regno di Dio è il regno dell’iniziativa assoluta dell’amore, di un amore senza misura, di un dono fino alla fine. La felicità è grazia, è dono, è gratuità.
Chi ragiona secondo il mondo, si guarderà bene dal prestare qualcosa a chi non potrà restituirgliela. Farà anzi prestiti ad interesse. Tutt’altra sapienza reggerà la coscienza di chi attraverso Gesù ha imparato ad attingere al cuore del Padre.
Non facciamo di queste parole di Gesù – la guancia, il mantello, la tunica – precetti da distribuire in modo ridicolo. Non sono parole, questo amore è stato vissuto realmente dal Figlio, nella cui passione ha brillato il modo con cui il Padre ama: Gesù non ha reagito con violenza agli schiaffi; non solo si è lasciato portar via il mantello, ma anche la vita; e mentre dall’alto della croce guardava i soldati che si giocavano la tunica, ha pregato per loro, dicendo: Perdona perché non sanno quello che fanno.
Questa è la gloria di Dio che il mondo chiede di vedere. Preghiamo insieme perché ci sia dato almeno di esserne un qualche riflesso nei nostri giorni.